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Viaggio al termine di Giuseppe Conte

"Avvocato del popolo" prestanome dei populisti, perno di un governo progressista, leader bonapartista adorato dalle sue "bimbe". Giuseppe Conte ha avuto una sola qualità: saper sempre restare in sella al toro meccanico della politica italiana

Foto: AM POOL/Alessandro Serranò/Getty Images

Giuseppe Conte è entrato sulla scena politica italiana in modo improvviso e schizofrenico, nel maggio 2018, il primo Presidente del Consiglio incaricato a non avere nemmeno una pagina su Wikipedia. Nel giro di una settimana avevamo visto questo sconosciuto con i capelli sempre in ordine che si prendeva una pizza per strada tra una riunione e l’altra per far partire il governo del cambiamento, avevamo appreso basiti della sua fervente devozione a Padre Pio e riso per il suo curriculum in cui un corso di tedesco a Vienna e un giro in biblioteca alla New York University erano gonfiati come delle vere esperienze lavorative, da vero italiano medio. 

Una settimana dopo l’incarico, il governo Conte era sembrato naufragare sul nascere in una crisi politica di cui nessuno capiva granché e i cui sviluppi sembravano del tutto imprevedibili. Ma alla fine Conte era riuscito a insediarsi, mostrando per la prima volta la sua qualità migliore, l’unica qualità che ha veramente mostrato nel corso della sua carriera politica: la capacità, seduto su un toro meccanico che si agita avanti e indietro cercando di disarcionarlo, di rimanere in sella costi quel che costi.

Fin da subito era sembrato un uomo perfettamente a suo agio nel grigiore delle istituzioni, nato per fare il piccolo burocrate; un uomo a cui non pareva vero di essere finito a fare quello che stava facendo – cioè il pupazzo che le due forze politiche che davano vita al governo, Lega e M5S, usavano per comunicare tra loro infilandoci la mano dentro e facendo i ventriloqui. Quello era il suo ruolo in un momento politico in cui Di Maio andava a votare nella sua nativa Pomigliano d’Arco venendo accolto da cori “presidente, presidente”. E in cui a breve Salvini avrebbe monopolizzato l’attenzione nazionale vestendo i panni dell’uomo forte con il pugno di ferro le magliette della polizia.

Giuseppe Conte ha saputo attendere il suo momento. Da vero burocrate nell’animo, non è mai stato veramente legato al “governo del cambiamento” che era chiamato a tutelare in qualità di “avvocato del popolo” italiano: aveva ben chiaro che si trattava di una convivenza forzata tra due entità che puntavano a mangiarsi l’una con l’altra. Un anno dopo, quando i tempi sono cambiati e Salvini, stimolato da rapporti di forza che gli parevano favorevoli, ha tentato il colpo di mano di ribaltare quell’alleanza di comodo, tornare alle urne, lui ha tirato i fili di una tela che aveva probabilmente tessuto di nascosto presentandosi in Senato con il suo celebre discorso, quello in cui ha “blastato” il suo ministro dell’Interno che gli sedeva di fianco, senza mai chiamarlo per nome.

È così che il premier Conte è nato una seconda volta, cominciando la sua seconda vita: non più avvocato populista ma burocrate responsabile, non più pupazzo ma figura di compromesso. Il governo PD-M5S, nato da un’alleanza che al principio sembrava ancor più innaturale di quella che aveva dato vita al “governo del cambiamento”, si è dimostrato in realtà ben più nelle corde dei due partiti che lo componevano. Salvini, da ministro dell’Interno fortissimo nei sondaggi, è finito confinato di nuovo all’opposizione, e Giuseppe Conte è rimasto in sella al toro meccanico della politica italiana. 

Poi è arrivata la pandemia, che ha portato alla terza vita politica di Conte. Lui, che a palazzo Chigi sembrava non dovesse nemmeno entrare nei giorni in cui l’alleanza Lega-M5S rischiava di arenarsi sui temi del contratto di governo, si è trovato a occuparlo proprio nel frangente più drammatico attraversato dal Paese negli ultimi trent’anni almeno. Non c’è bisogno di ricordare come ci è apparso Conte lo scorso marzo e aprile, che immagine si è costruito: premier decisionista, che mette la salute pubblica prima di tutto ordinando uno stringente lockdown nazionale e appare periodicamente in tv a rassicurare il Paese con toni sobri, misurati. Era il 18 brumaio di Giuseppe Conte, il suo momento bonapartista. La popolarità del premier era alle stelle, come testimoniato dalla nascita delle “bimbe di Conte” che facevano fotomontaggi con la sua faccia circondata da cuoricini e stelline. 

Poi però anche quell’immagine ha cominciato a sbiadire man mano che l’emergenza si prolungava, si cronicizzava, e Conte da uomo d’azione devoto al bene pubblico ha cominciato a sembrare sempre più un’anatra zoppa, che menava colpi di Dpcm un po’ a caso, che si inventava il coprifuoco e le autocertificazioni, che faceva giocare gli italiani a un Twister fatto di regioni gialle, arancioni e rosse. Il tempo lavorava contro di lui, mostrando tutti i limiti politici di Giuseppe Conte ora che era finito al centro dell’attenzione. Ovvero essenzialmente il fatto che non fosse tagliato per il suo ruolo, che ci fosse arrivato per caso, solo in virtù della sua capacità di rimanere in sella. La stessa qualità che l’aveva portato in alto era quella che lo faceva ricadere.

I suoi discorsi alla nazione, che a marzo e aprile erano attesissimi, a novembre erano diventati stucchevoli e quasi imbarazzanti, una cortina fumogena di paroloni a nascondere il nulla assoluto, lunghissime supercazzole per esorcizzare una manifesta incapacità.  L’emblema era stato l’ossessione quasi freudiana per le palestre, al centro di ripetuti Dpcm, nel giro di tre settimane e di tre conferenze stampa tenute aperte, poi avvertite di mettersi in regola, poi chiuse. Il capitale politico e personale che si era guadagnato – anche questo per caso, come tutto nella sua carriera politica – gestendo la prima fase dell’emergenza, quella delle nostre paure, si stava dissipando rapidamente, e mezza Italia smetteva di apprezzare Conte in quanto Conte e iniziava a tollerare Conte in quanto, forse, il meno peggio – contando che il leader dell’opposizione andava ancora in giro senza mascherina. 

Ora Conte è uscito dalle scene in modo rapido e imprevisto, così come vi era entrato: la crisi di governo scatenata da Renzi si è svolta nell’indifferenza generale, quasi come avesse il pilota automatico. Non c’è stata nemmeno una sfiducia, nemmeno il senso di sollievo per aver sventato una minaccia politica. Solo le dimissioni di un premier che, sebbene si fosse parlato della possibilità – presto sfumata – di un nuovo incarico, un Conte ter, sembrava lui stesso poco convinto di poter continuare nel suo ruolo. Del resto, l’unica vera qualità di Conte è sempre stata quella di saper rimanere in sella al toro meccanico, e di capire quando ne è stato disarcionato.

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