Questa mattina Mario Draghi si è dimesso ufficialmente: l’esperienza di governo dell’ex numero uno della Banca Centrale Europea è giunta a conclusione al termine di 24 ore di ordinaria follia e con un finale inconsueto persino per la schizofrenica grammatica istituzionale italiana – infatti, pur avendo ottenuto la fiducia incassando 95 voti in Senato, di fatto il ritiro dall’aula di Lega, Forza Italia e Movimento 5 Stelle ha posto fine alla maggioranza che sosteneva l’esecutivo.
Anche se la crisi ha subito un’accelerazione improvvisa con lo strappo improvviso proclamato da Giuseppe Conte la scorsa settimana, di fatto è stata determinata dall’atteggiamento ambiguo palesato dal centrodestra nella giornata di ieri, che ha colto l’occasione per provare a ottenere un peso specifico maggiore nella determinazione dell’agenda di governo chiedendo un rimpasto e una nuova maggioranza che potesse mettere alla berlina i Cinque Stelle: una condizione che, come da previsioni, Draghi ha rigettato in toto.
Fino a poche settimane fa, quasi nessuno avrebbe pronosticato un risultato del genere: il “governo dei migliori”, come lo ha ribattezzato certa stampa, sembrava godere di un consenso trasversale, e la guida affidata al più tecnico tra i tecnici, il banchiere europeo capace di imporre la propria linea sul Quantitative Easing ai falchi tedeschi e di ripresentarsi in Italia nella veste più autorevole in assoluto, sembrava poter rappresentare il collante ideale per un governo di unità nazionale chiamato ad agire tempestivamente sulle urgenze imposte dalla campagna vaccinale e dall’allocazione delle risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Del resto, il governo Draghi è nato in una fase delicatissima e con un preciso mandato politico e strategico: quello di gestire la ricostruzione del Paese nel periodo post–pandemico, metterne in sicurezza i conti e portare a compimento le riforme; dei propositi che difficilmente, almeno in una prima fase, avrebbero potuto incontrare un veto da parte dei partiti. Non a caso, al netto dell’eccezione di Fratelli d’Italia e di una Giorgia Meloni che, in vista delle elezioni, ha deciso in maniera intelligente di continuare a incarnare l’opposizione, Draghi è stato in grado di incassare il sostegno di quasi tutto l’emiciclo – persino la Lega e il Movimento 5 Stelle, alfieri dell’euroscetticismo, hanno accordato la propria figura in tempi record.
Date queste premesse, com’è stato possibile arrivare a un finale del genere? Con ogni probabilità, oltre all’opportunismo dei partiti, la crisi è da imputare anche all’intransigenza dimostrata dallo stesso Draghi, che ha voluto sin da subito svincolarsi da ogni logica di compromesso (e, ahinoi, che ci piaccia o meno, la mediazione continua ad essere il fulcro della democrazia rappresentativa, tanto più in un Paese politicamente frammentato come il nostro) per ribadire la pienezza del suo mandato e ricostituire quel “campo largo” che garantiva la sua legittimazione come presidente del Consiglio: non ha mostrato alcun segnale di apertura, non ha concesso il minimo spiraglio alle richieste di Conte e neppure alla riconfigurazione di governo richiesta dal centrodestra nella giornata di ieri. Insomma, Draghi non ha voluto abdicare neppure per un secondo al suo ruolo di garante di un “patto di responsabilità” di ordine superiore, talmente sacrale da precedere qualsiasi tipo di opportunismo elettorale; così facendo, però, ha negato ogni possibilità di ricostruzione della maggioranza. Come ha notato Mattia Marasti su Valigia Blu, «come tutti i governi anche quello Draghi si è ritrovato a mediare tra partiti estremamente diversi tra di loro, rappresentanti di istanze e interessi diversi, non con politici illuminati». Con le elezioni alle porte, dei tribolamenti della maggioranza non erano soltanto prevedibili, ma più che sicuri: c’è chi, come Conte, ha tentato di trascorrere gli ultimi sei mesi all’opposizione per contendere lo scettro del dissenso a Fratelli D’Italia e ripresentarsi ai propri elettori nella vesta di forza politica “alternativa” e chi, come la Lega, non aspettava altro che la tempesta perfetta necessaria per far cadere il governo senza troppe ricadute: è la democrazia, bellezza.
Per la quarta volta dall’inizio della legislatura, il destino del Paese torna nelle mani di Mattarella. Gli scenari sono quelli che conosciamo: la prima ipotesi, quella meno probabile, è quella di un nuovo turno di consultazioni, ma individuare un profilo idoneo a individuare una nuova maggioranza di governo sembra un’impresa impossibile; l’altra opzione, quella più caldeggiata, è di indire le elezioni anticipate, chiamando gli italiani alle urne il prossimo 2 ottobre: una soluzione che pare accontentare tutti, in modo particolare i deputati e i senatori al primo mandato che, il prossimo 24 settembre, matureranno il diritto alla pensione.
Draghi ha lottato per mantenere in piedi la sua maggioranza a ogni costo, e forse nel farlo ha dovuto imparare una lezione: persino il whatever it takes può traballare di fronte alle esigenze di una democrazia parlamentare.