L’intervista del Corriere della Sera ad Antonio Razzi è di quelle che non si sa se vengono fatte per un certo senso del pluralismo (insomma, siamo in campagna elettorale e devono poter parlare tutti), per confezionare una di quelle che tecnicamente si chiamano notizia di colore o magari per pungolare, pure giustamente, la maggioranza, scoperchiando il vaso dei fantasmi del Natale passato. Fatto sta che la domanda è legittima: che fine ha fatto Razzi? Ebbene, è vivo e lotta insieme a noi. Ma non insieme a Forza Italia, il partito a cui ha aderito ufficialmente nel 2013 dopo un lungo trascorso comunque berlusconiano («sono di sua proprietà», disse una volta, «per lui mi butterei anche sotto un treno»), e che già nel 2018 aveva però deciso di non candidarlo.
Oggi sospira: se ci fosse ancora il Cavaliere, lo avrebbe già inserito in una qualche lista per Bruxelles. E invece, leggiamo tra le righe, questi nuovi burocrati, da Tajani in giù, senza il fiuto del Capo fanno finta di non vederlo, si voltano dall’altra parte. «Io voglio dare una mano. Ho oltre mezzo milione di follower. Se anche solo il 5% mi votasse, porterei 25mila voti. Se si vuole superare il 10% è bene avere i numeri», confessa.
E questa cosa qui – quella, cioè, di «avere i voti», che Razzi ripete spesso durante la conversazione e che, puntualizza, sono «dei giovani» – è il punto fondamentale della questione, quello che spiega non solo il modo in cui ragionano (spesso alla disperata) i partiti in periodi di campagna elettorale, ma anche perché un personaggio come lui non ha tutti i torti a chiedere una candidatura, e perché, soprattutto, spesso le liste dei partiti siano piene di gente impresentabile. Non si parla di cani sciolti che fondano da sé il loro simbolo e ci provano, quella è proprio una galassia a parte; ma di candidati che la sparano sempre più grossa, non sono adeguati al ruolo, eppure hanno alle spalle simboli e (ehm) culture importanti, vengono scelti dai partiti stessi e, qualche volta, vincono pure (tiè).
Razzi, che ha 76 anni e oltre che deputato e senatore in passato è stato nominato consigliere del Ministro dell’Agricoltura, spesso è sembrato talmente fuori contesto, e non solo nell’uso della lingua italiana, da apparire come la parodia di un politico, in Parlamento chissà per quali motivi. Crozza ha costruito un impero sulle sue imitazioni, lui è noto – tra le altre cose – per la vicinanza sfacciata con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un (su cui i giudizi positivi si sprecano, tipo che «sta cercando di portare un po’ di democrazia nel Paese», ma d’altronde le amicizie assurde del leader sono risapute, tipo quella con il cestista Rodman: in caso di minaccia nucleare, toccherà mandare loro a parlargli). E ora è una stella su TikTok e su Instagram, dove fa questi video, tutt’altro che politici. Forse, anche per la fedeltà di cui sopra, è uno degli ultimi alfieri del berlusconismo, qualsiasi cosa per lui voglia dire; ma il curriculum in sé è notevole, se non altro.
«Ci sono candidati che poi uno si chiede “chi lo conosce”. Ma se non metti gente conosciuta come fai a prendere i voti?», si è sfogato sempre con il Corriere. «Ad Arcore Berlusconi mi aveva detto: “Se tu fossi capolista prenderesti 2-3 milioni di preferenze, perché sei molto amato anche grazie alle imitazioni di Crozza”». E ancora: «I giovani mi scrivono sui social. E io rispondo. Certo, ci sono anche quelli che mi vogliono offendere e io gli metto un cuoricino, così si arrabbiano il doppio». E ok, è vero che la storia di Berlusconi stessa alla fine è un grande simbolo di come si convertono dei “seguaci” in voti, e che al contempo pensare che la gente possa votare quello che a tutti gli effetti è un meme vivente è forse un po’ ambizioso, e non c’è da prenderlo troppo sul serio; ma c’è comunque un fondo di verità.
C’è che gli impresentabili esistono da sempre e per sempre, intensi proprio come aderenza al ruolo che prevede la loro elezione, più che al pensiero. Non stiamo parlando, insomma, dei fascisti che entrano in Parlamento, o non per forza; parliamo di chi, a prescindere dalle opinioni politiche, non ha la minima idea di dove si trova. E si sa: ci sono dall’alba della Repubblica, sono per lo più pesci piccoli che si presentano in sordina ma poi, al momento clou, quando servono i numeri e ci si gioca tutto magari su un paio di preferenze in un voto di sfiducia, ecco, lì li senti eccome. Scilipoti che nel 2010, da un giorno all’altro, cambia idea e salva Berlusconi, tra i tanti. O il mitologico Ciampolillo che nel 2021 garantisce stabilità in extremis al governo Conte bis. E così via. Ma come fanno?
A volte, com’era stato nel caso di Cicciolina con i Radicali, negli anni Ottanta, se la candidatura è eclatante (si trattava, comunque, di una pornostar) s’innesca più che altro il voto di protesta, che poi alla fine premia candidati del genere. Altre volte, semplicemente, quelli che spesso vengono ritenuti impresentabili hanno in realtà un loro feudo di voti – costruito in maniera molto, dài, artigianale – di cui il loro partito non può o non vuole fare a meno. Gasparri è uno controverso nel metodo, prima ancora che nel merito, eppure nel Lazio è difficile da buttare giù e dentro Forza Italia ha fatto una carriera impressionante. E poi ci sono i nomi più marginali nelle circoscrizioni più piccole, dove il discorso è simile: magari sono espressione specifica di un territorio, specchio di certe dinamiche; lì, al di là di tutto, la gente e i politici locali li apprezzano. In un Paese frammentato come il nostro, dove la Lega ha costruito una dinastia al nord e il Movimento 5 Stelle al sud, magari è difficile immaginarselo. Ma è così. E soprattutto, sono lo specchio, sempre, di chi li vota. Per cui chissà che una candidatura di Razzi, alla fine, non apra agli influencer in Parlamento, impresentabili o meno che siano.