Non mi peso da circa dieci anni, dopo che un ginecologo m’obbligò a salire ignuda su un’enorme bilancia, e io trovai questo gesto parecchio avvilente e vagamente villano. Da allora, oltre ad aver cambiato ginecologo, utilizzo un altro infallibile metodo per stabilire quanto mi stia discostando da quello che è – o almeno, immagino essere – il mio peso forma: un paio di Levi’s, rigorosamente privi di elastan. Se ci entro, bene; se mi stringono sulle cosce e fatico a chiudere i bottoni, significa che ho dato troppa fiducia al mio metabolismo. E dato che, dovendo scegliere tra indossare i jeans preferiti senza problemi e continuare a bere e mangiare fregandomene della forma fisica, la prima opzione mi rimette in pace con me stessa e col mondo, per qualche settimana bandisco carboidrati, fritti, schifezze varie, birra, cocktail (no, il vino no: magra sì, non masochista) fino al raggiungimento del traguardo.
La dieta – «l’unico gioco dove vinci perdendo», osservò giustamente Karl Lagerfeld – richiede alcune virtù piuttosto rare nell’essere umano odierno: determinazione, dedizione, rigore. D’altronde, se fosse un’attività semplice, tutti saremmo Gigi Hadid. Devi tenere a freno la fame, rifiutare le tentazioni (leggi: gli inviti ad aperitivi e cene), rinunciare alla birretta a fine giornata che ti fa tanto rilassare; in cambio, ottieni la soddisfazione di guardarti allo specchio e piacerti, e se ti piaci – rivelazione pazzeschissima – la vita è in discesa. Le motivazioni per cui una persona decide di seguire una dieta sono varie e insindacabili, siano esse il desiderio d’infilarsi un vestito, l’ordine di un medico, la volontà di far strage di uomini. Peccato che, in un’epoca che s’è inventata la body positivity e che vuole illudersi i canoni estetici siano portatori di svariati traumi (altra rivelazione pazzeschissima: un corpo sano è destinato a vivere più a lungo e a sviluppare meno patologie gravi nonché fatali), tale affermazione equivale a commettere blasfemia.
Kim Kardashian, per sfoggiare in occasione del Met Gala l’abito con cui Marilyn Monroe nel 1962 cantò «Happy birthday, Mr. President» a John Fitzgerald Kennedy, ha seguito un regime dietetico ferreo, dimagrendo più di sette chili in tre settimane. Che problema c’è , ho pensato, brava lei che c’è riuscita. E invece no. «Kim Kardashian ha tenuto a sottolineare (d’aver perso sette chili in tre settimane, nda) per ribadire che dalle sue parti della body positivity non gliene frega niente a nessuno», scrivevano pochi giorni fa giornaliste di costume indignate. Ma che accidenti di ragionamento è, mi sono chiesta, mentre negli Stati Uniti montava lo scandale du jour. Ridotto all’osso: Kim dà un cattivo esempio, ché dimagrire sette chili per entrare in un vestito equivale a inneggiare all’anoressia.
Che è un disturbo presente dal 1968 nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, quindi, citando Guia Soncini, «adulte che hanno superato cicli scolastici e ottenuto certificazioni del loro essere normodotate e alfabetizzate dicono seriamente che una malattia psichiatrica è causata dal fatto che una che di lavoro si mette dei vestiti racconti d’essere stata tre settimane a dieta per mettersi un vestito». Tradotto: se stasera esco con un’amica che è un po’ triste, secondo alcuni costei assai probabilmente sarà l’origine del mio futuro disturbo depressivo maggiore.
Visualizza questo post su Instagram
«Modificare il tuo corpo per infilarti un vestito è più che sconsiderato, è tossico. Inquadrare la perdita di peso estrema come una decisione razionale invia alle donne e agli uomini il messaggio che dovrebbero cambiare il loro corpo e soffrire per la moda se si aspettano di essere degni di ammirazione e lode. Che lo stato predefinito per chiunque voglia apparire al meglio è la privazione. Che, se vuoi essere bellissima, faresti meglio ad “alzare il tuo fottuto culo e lavorarci”, per citare la stessa Kardashian», titola un articolo allarmista su Elle UK. Echi di Diletta Leotta e del famigerato «la bellezza capita, non è un merito», eppure no, care Diletta ed Emily Cronin autrice del suddetto pezzo: non c’è donna (e uomo) al mondo che per essere bella – o piacente, o in forma, o snella, mettetela come volete – non debba «alzare il fottuto culo e lavorarci», in particolar modo se quella donna (o quell’uomo) ha più di trentacinque anni. E il bello (aridaje) è che va benissimo così.
Il paradosso della body positivity, uno dei peggiori flagelli del nostro secolo, è servito: stando a coloro che la postulano, tutti dovrebbero accettarsi come sono ed essere felici col corpo che si ritrovano: ce ne dobbiamo infischiare dei canoni estetici in quanto ognuno di noi è bellissimo, capito? Bene, fin qui ci siamo. Ma che succede se qualcuno decide di modificare il proprio con una dieta o con un intervento di chirurgia estetica semplicemente perché gli va (e, aggiungo io, perché sono cazzi suoi)? Diventa il nemico, la feccia, l’esempio da infangare, il paladino della body negativity: come osi offendere noi che invece andiamo cianciando di vivere bene con l’acne, la cellulite, il naso aquilino, i chili in eccesso, le braccia flaccide e le culotte de cheval? «Ma io non vi sto offendendo, voi potete benissimo continuare la vostra esistenza insieme all’acne, alla cellulite, al naso aquilino, ai chili in eccesso, alle braccia flaccide e alle culotte de cheval, chi vi dice niente», risponderebbe il povero disgraziato reo d’alto tradimento.
I canoni estetici esistono dalla notte dei tempi, facciamocene una ragione: nel mulino che vorrei, chi decide di assecondarli non dovrebbe rompere l’anima a chi li rifiuta, e viceversa. Nella realtà, purtroppo, le cose funzionano diversamente, ché chi rifiuta i canoni estetici partoriti dalla società, dalla cultura, dalla moda, pretende di sentirsi rappresentato. «Da quando voler essere in forma è diventato un peccato mortale? Da quando ci si deve vergognare?», domandavo un paio di giorni fa a un’amica, commentando l’indignazione generale di fronte alla Kardashian-dieta. «Da quando è diventato cool vedere modelle sovrappeso, per permettere ai brand di essere inclusivi e di sfatare il mito degli stilisti grassofobici», ha replicato lei, «come se poi non fosse un pensiero comune quello che un corpo snello in passerella sia meglio di uno “grasso”» (sì, l’ha virgolettato, confermando il mio sospetto: ormai è un aggettivo proibito).
Morale: è davvero naïf non vedere dietro certe operazioni la furberia di un dipartimento marketing che ti ordina d’inserire la quota in grado di far decollare l’awareness e le vendite di un marchio; ed è altrettanto naïf puntare il dito contro coloro che alzano il fottuto culo e lavorano (regola d’oro applicabile a molti ambiti della vita), con la convinzione di non passare per un manipolo di rosiconi. (Voler) essere fighi per sé stessi – ma pure per gli altri – non è (ancora) né una perversione punibile con l’ergastolo, né una celebrazione di pratiche malsane (sono stata adolescente negli anni Novanta: all’epoca sfilava Kate Moss, ed è incredibile che la cosa non m’abbia traumatizzata). Durante la scrittura di quanto state leggendo e che mi costerà la testa, ho sentito un’amica designer chiedendole in prestito un vestito incredibile per una festa: «Sempre che mi vada: tu sei più minuta di me», le dico. «Ma no, sono una falsa magra!», cerca di tranquillizzarmi lei. Tutto sommato sono abbastanza serena: male che vada, farò la dieta di Kim Kardashian.