Durante questi ultimi mesi, in tutto il mondo i morti da suicidio hanno superato i morti per COVID-19. È quello che emerge dal sito di statistiche in tempo reale Worldometer che mentre scrivo conta circa 390mila suicidi a partire da gennaio contro circa 288mila morti per il virus.
E il divario è probabilmente destinato a crescere. In Italia i tentativi di suicidio sono in aumento e nei prossimi mesi – o addirittura anni – si prevede un ulteriore incremento come effetto più o meno diretto della pandemia. “Una volta passata la fase acuta dell’emergenza”, avvertono i 42 esperti che formano la International Covid-19 Suicide Prevention Research Collaboration, “il rischio è di veder emergere in tutto il mondo un’altra ‘pandemia’, questa volta di problemi mentali legati al coronavirus”.
La tanto attesa “fase 2” non è solo l’occasione per valutare gli effetti psicologici dell’isolamento protratto sulla popolazione, ma anche un momento critico da non sottovalutare. Mentre riemergiamo lentamente dalle nostre tane, infatti, iniziamo a convivere con due sensazioni opposte: da un lato, l’allentarsi del tempo sospeso della quarantena, ansiogeno, frustrante ma deresponsabilizzante; dall’altro la sensazione di trovarsi nell’occhio del ciclone – in un momento cioè di calo della tensione solo temporaneo, di cui è importante approfittare prima che tutto si fermi di nuovo.
“Ci si arrabbia per la gente presente in massa ai navigli di Milano, ma serve anche un po’ di comprensione: la cultura dominante è esattamente l’opposto di quello che stiamo vivendo”, commenta Gianpiero Dalla Zuanna, che insieme ad altri colleghi dell’Università di Padova ha curato un’indagine congiunta con l’Università di Oxford proprio sugli effetti psicologici della pandemia sulla popolazione.
Dallo studio emerge che ben l’85% dei giovani soffre di depressione da lockdown, anche se sono i più anziani – e soprattutto le anziane – a chiamare il numero verde messo a disposizione dalla protezione civile per il sostegno psicologico. A tutte le età la preoccupazione principale è quella finanziaria (64%), mentre il malcontento connesso alla chiusura delle chiese e all’assenza delle messe si attesta intorno a percentuali molto basse (tra il 12 e il 16%).
Le ragioni del disagio sono piuttosto ovvie: timore del contagio, misure di isolamento, solitudine, lutti e incertezze economiche posso far nascere attacchi di ansia, stress, paure, depressione. Ci sono però anche meccanismi meno palesi che il nostro cervello mette in atto senza avvertirci e che sono la ragione per cui tanti di noi si sentono uno schifo anche se tutto ciò che gli è richiesto è “stare tutto il giorno sul divano”.
Il motivo è che una crisi di questo tipo, invece di sfogare lo stress tende a farlo accumulare, perché non prevede nessuna risposta attiva che non sia l’attesa. Secondo Nancy Sin, professoressa di Psicologia all’Università della British Columbia, in situazioni come quella che stiamo vivendo “i nostri ormoni dello stress aumentano, perché ci prepariamo a combattere o a fuggire”. Nel concreto, però, non dobbiamo né scappare né affrontare il nemico, solo stare buoni e preoccuparci, e questi processi fisiologici finiscono per accumularsi.
Questo accumulo è chiamato “carico allostatico”, che in pratica è il prezzo che il nostro organismo paga per adattarsi alle circostanze mutevoli. Gli ormoni prodotti proteggono l’organismo e gli consentono di adattarsi nel breve periodo, ma a lungo andare risultano molto usuranti. È uno dei tanti motivi per cui le persone con problemi economici hanno una salute peggiore: semplificando, è a causa dello stress a cui sono continuamente sottoposti.
Non serve soffrire di patologie pregresse per risentire di una situazione che espone ad ansia costante, lasciando però la frustrante sensazione di non fare nulla tutto il giorno. Forse il corpo non sta lavorando duramente, ma il cervello lo sta facendo: affronta lo stress e cerca di comprendere la minaccia: tutto ciò richiede molta più energia di quanta pensiamo. Poi c’è il discorso della solitudine: anch’essa aumenta il carico allostatico, perché l’organismo legge la nostra mancanza di supporto esterno come una vulnerabilità ulteriore, il che significa ancora più stress e ancora più lavoro da parte di un cervello che deve essere in costante allerta per identificare le minacce esterne, in questo momento più che mai perché deve sopperire a uno svantaggio.
La solitudine ha anche un altro effetto: per mettere in atto quei meccanismi che ci aiutano a ridimensionare i pensieri depressivi abbiamo bisogno di confrontarci col mondo esterno, uscire di casa e dalla nostra testa, vedere persone – tutte cose che in questo momento non possiamo fare o possiamo fare solo con grosse limitazioni.
La depressione era la più comune causa di disabilità nel mondo anche prima che la pandemia e il distanziamento sociale piombassero a darci un’ulteriore mazzata. E non si può affrontare la depressione da lockdown con gli articoli sui “consigli per essere produttivi lavorando da casa” o sulle “strategie per sentirsi belli in quarantena”. Naturalmente vestirsi e truccarsi appena svegli e fare esercizio fisico sono tutte cose che fanno sentire molto meglio e sono utili escamotage, ma non bisogna dimenticare che la depressione, quella vera, non è la tristezza e non si risolve dandosi una mossa, perché ad essere colpita è proprio la volontà.
Gli studi e le proiezioni che associano pandemia e disturbi mentali ci dicono non solo che è importante agire per assicurare ai cittadini quantomeno l’accesso a un aiuto concreto, ma anche che i governi, nel momento in cui mettono in atto le strategie per evitare il contagio, devono aver bene in mente il prezzo che l’isolamento prolungato comporta. Quanto a noi singoli cittadini, capire i meccanismi che regolano l’umore e la capacità di reazione è utile soprattutto per sentirsi meno in colpa e accettare che è normale chiedere aiuto. Quindi buttate le to do list per la Fase 1 e 2 e smettetela di struggervi perché in quarantena non avete scritto Re Lear.