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Com’è fare la rider ora che le città sono deserte per il coronavirus

Sembra di vivere in un mondo in cui le persone non esistono, ma esistono solo questi oggetti da trasportare dal punto A al punto B che vengono trasportati da noi: i rider

Sean Gallup/Getty Images

Ho iniziato a fare la rider principalmente perché, quando è iniziato il lockdown, ho saputo che i colloqui che avevo fatto a inizio 2020 si erano risolti in un nulla di fatto. Avevo riposto fiducia in questi lavori, e queste notizie mi hanno messo in ansia: non avrei avuto un’entrata fissa e la situazione rendeva molto più difficile fare anche lavori da freelance. Come se non bastasse, quando mi sono messa ad esplorare Linkedin in cerca di offerte ho trovato il deserto — e la situazione è la stessa anche ora.

Mi sono chiesta come fare a non passare attraverso le mille application diverse, i colloqui infiniti e gli step di selezione interminabili che possono tenerti in sospeso per settimane. Così, sono giunta alla conclusione che fare la rider era uno dei lavori più avvicinabili: basta iscriversi on-line e ogni azienda di delivery ti spedisce a casa il suo kit.

Tra il processo di iscrizione e l’arrivo del kit è passata poco più di una settimana. A quel punto, ero pronta e potevo iniziare a lavorare. L’unico problema era avere scoperto che la mia bicicletta era rotta proprio mentre i negozi di ciclismo erano chiusi. Per fortuna, sono riuscita a rimediare una bici, e questo mi ha semplificato di molto la vita.

La cosa più interessante per chi non ha mai fatto questo lavoro è immergersi in una realtà praticamente aliena, con cui è difficile entrare in contatto – escluso ovviamente quando rischi di investire un rider o le volte in cui ordini qualcosa a casa e ti torturi pensando se la mancia lasciata a chi ti ha portato la cena è sufficiente. Quello dei rider è un vero e proprio mondo parallelo, che utilizza dei suoi codici di comunicazione che sto imparando piano piano a conoscere pur partendo dalla posizione da outsider di chi spesso non parla la stessa lingua dei suoi colleghi. Ad esempio, ho scoperto come, in alcune comunità di rider, c’è un grande senso di solidarietà, di protezione reciproca, che si esprime anche solo salutando per strada gli altri rider anche se non li si conosce.

Ovviamente non ci sono tante rider donne. Spesso c’è un po’ di imbarazzo: certi uomini ti guardano stupiti e ti squadrano, non sono abituati. Anche i clienti ogni tanto mi accolgono con stupore. Mi è rimasta in mente una donna che il weekend scorso mi ha detto “Ciao Camilla!” quando mi ha aperto la porta. Non mi conosceva, deve aver letto il nome sull’applicazione.

Qualcuno mi chiede se mi sento sicura, e la risposta è non sempre. In questo periodo, ci sono ovviamente tantissime macchine della polizia in giro ma spesso mi trovo nelle situazioni in cui, in zone che non conosco, la strada è completamente vuota e quindi provo un po’ paura. In particolare ho il terrore forse irrazionale di poter essere attaccata nel momento in cui sono più vulnerabile, cioè quando scendo dalla bici per citofonare ai clienti e qualcuno può avvicinarmi alle spalle. In ogni caso dato lo sforzo fisico che richiede questo lavoro, a meno che non si abbiano bici elettriche o altri mezzi, lo consiglierei solo a donne e uomini con una certa preparazione fisica.

Visto che la maggior parte delle persone che conosco non ha mai fatto questo lavoro, ho cominciato a documentare tutti i miei turni con delle dirette su Instagram. Il giorno in cui ho fatto il mio primo servizio ero in ansia totale. Non c’è nessun capo a cui fare riferimento, nessuno ti dà indicazioni, devi solo interagire con un’applicazione, puoi solo accettare o rifiutare una consegna. È tutto nelle tue mani, dall’inizio alla fine del turno tutte le responsabilità sono tue. Questa è stata una cosa completamente nuova per me. Anche quando lavori da freelance ti devi gestire da solo, ma perlomeno ti interfacci con una persona fisica che ti assegna compiti da portare a termine, non con un software. All’inizio questa specie di gamification del lavoro può risultare molto strana, ma poi ci fai l’abitudine.

Ritrovarsi a fine turno stanca ma con la testa sgombra perché quando hai finito di lavorare hai veramente finito e puoi staccare davvero — contrariamente ad altri tipi di lavori — è indubbiamente una delle parti migliori di questo lavoro. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto del fatto che io posso parlarne con questo tono positivo, perché sto portando avanti in contemporanea anche altri lavori. In effetti, se devo essere sincera, in questo momento, pensare alla carriera di rider come unica fonte remunerativa per permettermi di vivere a Milano mi risulta impossibile.

La città è incredibilmente vuota e ovviamente questo ha un effetto impressionante. Allo stesso tempo, però, se le strade non fossero così vuote, non avrei mai preso in considerazione questo lavoro perché a Milano ci sono — anzi c’erano — degli orari in cui è veramente pericoloso girare in bici. E questi orari spesso coincidevano proprio con gli orari di maggiore attività del delivery. Le poche macchine e furgoncini che girano sono quelli dei servizi di consegna. Sembra di vivere in un mondo in cui le persone non esistono, ma esistono solo questi oggetti da trasportare dal punto A al punto B che vengono trasportati da noi: i rider.

Perché la città sarà vuota ma i rider sembrano sempre tantissimi. Ce ne sono dappertutto, spuntano da tutti gli angoli e spesso sono pericolosi per gli stessi rider. Ovviamente, se sei in bicicletta e non c’è nessuna macchina in giro, è difficile che rispetti i sensi di marcia, gli stop, i semafori e quindi, mi è anche successo di scontrarmi con qualcuno. Mi sono spaventata molto. Da allora, controllo sempre che la gente non vada contromano.

Pensando proprio a questo, mi sono posta anche il problema di come sarà andare in bici dopo il 4 di maggio con l’inizio della cosiddetta fase 2. Immagino che ci saranno più macchine in giro visto che molte aziende riprenderanno la loro attività. Spero che però la città rimanga sicura come lo è adesso per una persona in bici. Credo che la con le riaperture la quantità di lavoro per noi aumenterà, così come il numero di ristoranti disponibili solo in delivery. 

In definitiva sono contenta di come questo lavoro mi aiuti a staccare completamente dalla realtà della mia “bolla”. Mi ha dato una prospettiva diversa, mi sta facendo uscire della mentalità degli ambienti che frequentavo che spesso mi faceva sentire insoddisfatta. 

Tra lockdown e cambio di lavoro così radicale, mi sono ritrovata in una specie di altra bolla, e l’effetto è straniante e confortante allo stesso tempo. È paragonabile a fare un viaggio lontano da tutto e da tutti a contatto con un’altra cultura. Soprattutto non mi è ancora capitato che nessuno mi abbia riconosciuto, non ho ancora consegnato a nessuno che conosco, quindi non mi sono ancora scontrata con il mio mondo pre-lockdown. Ho come l’impressione di stare vivendo la vita di qualcun altro.

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