Se penso a Emily Ratajkowski, la prima cosa che mi viene in mente è l’immagine di lei che saltella mezza nuda in mezzo a (quel viscidone di) Robin Thicke e Pharrell, nel video di Blurred Lines. Correva l’anno 2013, ero all’università e Blurred Lines riecheggiava in ogni bar in cui mettevo piede per la pausa pranzo, almeno quanto faceva il nome della Ratajkowski in ogni discorso articolato da bocca maschile («La Emily come-cazzo-si-chiama, quella sì che è una strafiga», cit. amico di turno). D’altronde, mi dicevo, come dargli torto? Quella Emily dal cognome impronunciabile era effettivamente una figa spaziale, tanto che quando sentivo qualcuno – uomo o donna che fosse – sostenere il contrario, l’unica spiegazione che mi davo era che costui o costei fossero della parrocchia dei peccatori d’invidia.
Però, rimaneva un dubbio: Emily Ratajkowski rimarrà sempre “quella” Emily Ratajkowski? Domandarselo era lecito: più veniva fatta ascendere dagli uomini all’Olimpo delle strafighe, più sembrava evidente che con Ratajkowski si stava mettendo in pratica quel particolare principio di causa-effetto su cui si regolano le esistenze pubbliche di queste bellone. Nel caso specifico, che, da Blurred Lines in avanti, qualunque cosa avesse fatto o detto, Emily Ratajkowski non avrebbe sortito altro effetto se non quello di un incremento delle partite in solitaria di molti uomini nel proprio letto.
Nel mentre finivo l’università, la hit del momento era stata dimenticata, e la nostra Emily pareva confermare (seppur subendola) la sopracitata legge che regola causa ed effetto. E ciò era tanto più evidente quanto più il suo sostegno politico a Bernie Sanders – nel 2016 come nel 2020 – veniva liquidato da qualcuno come presa di posizione non necessaria, di una bellona senza cervello (sigh!). In parallelo, la causa femminista che perorava a suon di foto nuda su Instagram per l’empowering della sessualità vedeva molte donne (e uomini) ricondurre il tutto a una bieca scusa per sfruttare il corpo femminile, arrivare alla fama e, in definitiva, fatturare. Vedi anche alla voce calendario dell’Avvento di Love Magazine del 2017: lei ballava in lingerie cospargendosi di spaghetti, e sua maestà Carla Bruni – in collegamento a Good Morning Britain – l’aveva gelata: «Non conosco il femminismo, certamente si tratta di essere liberi e fare tutto quello che si vuole. Ma che c’entra il sugo?» (dubbio legittimo, tra l’altro).
Classe 1991, la oggi trentunenne Emrata va d’altronde a braccetto con la nudità da quando era bambina: i genitori, anziché portarla al parco con gli amichetti, se la tiravano dietro nelle spiagge nudiste; incoraggiavano il talento artistico della figliola, che amava dipingere e scattare foto di nudo; in generale, le inculcavano bene in testa l’idea che, per stare bene con sé stessi, occorre essere a proprio agio col proprio corpo. Dopo un breve periodo alla University of California a Los Angeles, Emily lascia gli studi d’arte per dedicarsi alla carriera di modella, che porta avanti fino alla fortunata cover su Treat’s!, che la fa notare da Robin Thicke e Pharrell. Per lei tutto sommato il problema non esiste: dall’alto dell’empowerment femminile di cui si fa portatrice, è più che lecito «utilizzare il corpo per fini artistici», sebbene ciò le costi le prime accuse di promuovere lo sfruttamento dell’immagine della donna.
Con la consacrazione, arrivano i ruoli cinematografici (L’amore bugiardo – Gone Girl, alla corte di David Fincher; We Are Your Friends, al fianco di Zac Efron; Come ti divento bella!, insieme a Amy Schumer), l’onnipresenza nelle classifiche di bellezza stilate da diverse testate; le ospitate in newsletter engagé. Su Lenny Letter di Lena Dunham, nel 2016, un suo pezzo sulla pressione subita da giovane e sull’emancipazione sessuale femminile divise parecchio gli animi: da un lato chi elogiava le sue prese di posizione, dall’altro chi – come Charlotte Gill su The Independent – metteva in dubbio il suo femminismo, affermando che le attività professionali di Emrata «hanno continuato a sostenere industrie che ci trattano come pezzi di carne».
Lei tira dritto e non si cura di loro, quando le conviene ovviamente cavalca il MeToo, posa (nuda, ma toh) per protestare contro leggi antiabortiste, si fa ritrarre con le ascelle non depilate su Harper’s Bazaar UK per «esprimere la volontà della donna di essere ciò che vuole essere nel modo più variegato possibile». Poi, il matrimonio con l’attore e produttore cinematografico Sean Bear-McClard, la gravidanza e un codazzo di polemiche. Prima perché condivide le sue foto incintissima e nuda (aridaje); poi perché non fa in tempo a partorire che già torna in perfetta forma, per di più senza l’ombra di una smagliatura.
Ma questo è niente rispetto alla bufera che si scatena sotto una sua foto mentre allatta il figlio Sylvester Apollo, con quella didascalia che recita «Beautiful boy» e che, secondo molti, è la conferma che Emrata s’è rimangiata la parola riguardo l’approccio gender neutral. Solo qualche mese prima, infatti, aveva rivelato su Vogue America di non aver ancora reso noto se aspettasse un maschio o una femmina perché «non sapremo il sesso fino a quando nostro figlio non avrà diciott’anni e sarà lui a rivelarcelo». Gli attivisti del gender non perdonano, eppure dimenticano in fretta: neanche il tempo di polemizzare, ed ecco che se presenta un’altra. Emily condivide su Instagram una foto (ovviamente in bikini) in cui tiene il figlio di tre mesi con un solo braccio, e il bambino è con la testa penzoloni. Risultato: il web insorge, lei disattiva i commenti ed elimina il post.
Lo scorso inverno è il turno dell’autobiografia: in My Body, Emrata (ri)pone al centro il suo corpo, guardandosi da diverse prospettive e passando in rassegna diversi eventi della sua vita. Il corpo non solo come delizia, ma pure come croce, in primis per sé stessa: come quando, ancora tredicenne, la madre le diceva di mettere quel vestito sexy perché l’importante era che piacesse a lei, non che gli altri lo trovassero troppo provocante per una ragazzina; oppure quando, cresciutella, veniva pagata per andare al Super Bowl con un finanziere malese, o alle Maldive con un miliardario del Qatar, assolvendo al compito di intrattenere l’uomo che aveva pagato per averla lì (e caricare qualche foto su Instagram). Oppure ancora quando, sul set di Blurred Lines, un Robin Thicke ubriaco le aveva afferrato i seni senza il suo consenso.
Insomma, My Body assomiglia tanto a una sciorinata di vittimismo, condito con quel pizzico di consapevolezza sul proprio potere da lasciare interdetti. Perché una che da ragazzina dice qualcosa come «Tutte le donne sono oggettivate e sessualizzate in una certa misura, quindi ho pensato: “Potrei farlo anche io alle mie condizioni”»; «Sfruttando la mia sessualità ho i soldi. L’intero sistema è corrotto e chiunque partecipi è colpevole quanto me. Devo guadagnarmi da vivere in qualche modo»; «Cerco di far sembrare audace, affascinante e sexy qualsiasi cosa assomigli alla rabbia»; ecco, chi dice così ambisce certamente a ricoprire il ruolo dell’abusata, ma anche ad assolvere a quello della furbastra che ha il controllo sul proprio corpo. C’è qualcosa che non quadra, e lei – qua e là – se ne rende pure conto.
Infine, l’ultima comparsata sul red carpet al Festival di Cannes: di Miu Miu vestita, fresca fresca di frangetta, ma anche con una fisionomia che lascia intendere più lo zampino di un chirurgo che di un make-up artist. E tutti ci siamo chiesti: Emily Ratajkowski, alla fine, è ancora Emily Ratajkowski? Perché, dalla Emily icona sexy e leader del movimento «il corpo è mio e lo gestisco io» che ci piaceva perché se ne fregava delle critiche prestando anche il volto a battaglie politiche e femministe, siamo arrivati alla Emily che scrive quanto sia stata abusata, e quanto la sua immagine sia alla mercé degli altri più che di sé stessa. Fino a dare l’impressione di essere inserita in pieno nel sistema che, una volta, voleva combattere. Quella volta, con qualche etto di spaghetti e con buona pace di Carla Bruni.