Parto da quello che credo sia l’esempio più illuminante. Quando ero adolescente, negli anni Novanta, le pubblicità degli assorbenti volevano convincerci che – mestruate, doloranti, tristi e incattivite – noi donne potevamo fare qualsiasi cosa: buttarci col paracadute, sostenere il saggio di danza classica, correre la maratona. La comunicazione era volta a persuaderci che la nostra non era una condizione invalidante, anzi: il fatto di avere le proprie cose non poteva costituire un ostacolo al raggiungimento di un obiettivo (che ai tempi coincideva con un obiettivo sportivo, come se studiare o affrontare un’interrogazione con i crampi fosse invece una passeggiata di salute).
Il che rappresenta pure un’arma a doppio taglio: se le mestruazioni non sono e non devono essere considerate un handicap, allora stiamo educando una generazione a pensare che chi soffre di dismenorrea stia esagerando? Se è vero che con le mestruazioni puoi fare potenzialmente tutto, tu che sei piegata in due dal male e non riesci ad alzarti dal letto forse stai bluffando: perché non ti butti col paracadute insieme alle tue amiche che invece non si lamentano? Erano altri tempi, sì, tempi in cui bisbigliavi alla tua compagna di banco chiedendole un Tampax col terrore che qualcuno sentisse, tempi in cui lei ti rispondeva no, ho solo gli esterni, allora andavi in paranoia perché erano più difficili da nascondere nel pugno della mano: che figura ci faccio se corro in bagno e quello in seconda fila intravede un inequivocabile angolino lilla?
Le mestruazioni erano un fatto privato di cui talvolta ci si vergognava; non dovevano (e non potevano) essere elevate a giustificazione per inadempimenti di varia natura; l’unico modo per gestire i dolori al basso ventre a esse connessi era una dose generosa di generico ibuprofene. Trent’anni dopo, la situazione s’è completamente ribaltata: le mestruazioni sono diventate un fatto pubblico; il dolore mestruale e diverse disfunzioni correlate vengono sbandierati in ogni dove quasi siano un vanto; si sono quintuplicate le versioni di antidolorifici specifici, di assorbenti, di coppette, eccetera. Le mestruazioni, insomma, da un lato si sono trasformate in un business; dall’altro sono entrate di diritto nel dibattito collettivo, il che – se per certi versi è un bene – ha pure dei risvolti negativi.
Nel mezzo, a inizio Duemila, anche alla sottoscritta è stata diagnosticata una patologia piuttosto comune e piuttosto fastidiosa all’utero. Il ginecologo all’epoca mi mise davanti tre soluzioni: la prima, continuare a soffrire; la seconda, fare un figlio; la terza, prendere la pillola. Non solo non mi sentii affatto mortificata (col senno di poi, avrei dovuto? Che senso avrebbe avuto, non potendo postare la mia umiliazione sui social?), ma abbracciai la terza opzione senza mai più guardarmi indietro: la pillola anticoncezionale fu il mio lasciapassare per la libertà, per una vita libera da figli (mai desiderati), da dolori mestruali, da acne policistica, da qualsivoglia disagio o malessere legato al ciclo. Ho avuto – e tuttora conservo – il pieno controllo del mio utero: esiste forse qualcosa di più femminista?
Sono stata fortunata (ora dovrei dire privilegiata), sì, e chirurgica: avevo un problema, mi sono rivolta a uno specialista, l’ho risolto. Scontrandomi con alcuni stereotipi – «La pillola fa ingrassare», convinzione per cui in Italia l’assume meno del 20% delle donne in età fertile –, con le idee di mia madre – «Ma non ti farà male prendere degli ormoni?» –, con il Sistema Sanitario Nazionale – che non la rimborsa, pur rimborsando (giustamente) l’aborto. Il viaggio verso la personale presa di coscienza che l’utero è mio e me lo gestisco io è avvenuto in solitudine, ed è stato piuttosto confortevole: non ho mai avuto la tentazione di elevarlo a “trauma”, né di sbandierare la mia esperienza, cosa che mi rendo conto sto facendo ora a fini narrativi.
Mentre scrivo, apprendo che il 17, 18 e 19 giugno a Milano avrà luogo «il primo festival del ciclo mestruale (…) per inaugurare una nuova narrazione del ciclo mestruale, perché ancora oggi è visto come un tabù invece di essere riconosciuto come tema fondamentale per la salute e la parità di genere». Fatico sinceramente a vedere il tabù, tra un «Viva La Vulva» e un invito a «Fare un passo avanti»: mi pare che mai come adesso si disquisisca di vagine, sanguinamenti, dolori vulvari e uterini, in tv come sui social, al bar come al ristorante. «L’occasione in cui far dialogare diverse figure che si occupano di divulgazione mestruale» (!), «parleremo di endometriosi, disturbo disforico premestruale, Tampon Tax, menarca, transfobia, salute e igiene mestruale, impatto ambientale, discriminazione di genere e conflitti». Un gran calderone, insomma, un evento in cui si dibatterà, ci si instagrammerà, voleranno post indignati e si condivideranno traumi, al grido di «aboliamo l’Iva al 22% sugli assorbenti», «patologie legate al ciclo come l’endometriosi fanno fatica a essere diagnosticate e curate», «circa il 20% delle ragazze e delle donne tra i 15 e i 35 anni non ha mai fatto una visita ginecologica».
Comincio dalla Tampon Tax: il costo medio su Amazon di un pacco di assorbenti esterni premium da sedici pezzi è in media di 2,35 euro; 1,99 euro se si opta per gli interni. Calcolo della percentuale alla mano, significherebbe abbassare di 50 centesimi i primi e di 40 centesimi i secondi: quindi in Italia, nel 2022, riteniamo sia una questione di principio farli pagare rispettivamente 1,85 centesimi e 1,59 centesimi, mossi dalla certezza che per una donna sia difficile sostenere una simile spesa mensile. Da lavoratrice single, con un mutuo trentennale che le pesa sul capo, il discorso mi sembra vagamente offensivo: davvero credete sia questo il nodo della questione? Davvero credete il prezzo della parità siano quei pulciosissimi 40, 50 centesimi? Davvero credete che gli uomini ci possano prendere sul serio, vedendoci qui a contare le monetine manco fossimo dei clochard?
Venendo all’endometriosi, cito testualmente dal sito del Ministero della Salute: dal 12 gennaio 2017 «è inserita nell’elenco delle patologie croniche e invalidanti, negli stadi clinici più avanzati (“moderato o III grado” e “grave o IV grado”), riconoscendo a queste pazienti il diritto ad usufruire in esenzione di alcune prestazioni specialistiche di controllo. Si stimano circa trecentomila esenzioni». 300mila esenzioni sono tutt’altro che poche, e manco devo stare a sottolineare che la medicina, lungi dall’essere una scienza esatta, procede per tentativi ed errori: è difficile diagnosticare un disturbo bipolare, una dermatite erpetiforme, un’intolleranza al lattosio. Non è che tutti i dolori mestruali siano riconducibili a endometriosi, e non è che tutti i medici siano ugualmente preparati: di nuovo, è questa la battaglia che val la pena combattere, o si tratta della battaglia del momento?
Da ultimo, le visite ginecologiche. Una visita specialistica privata, comprensiva di ecografia e pap test, a Milano s’attesta tra i 250 e i 300 euro: ci stupiamo che il 20% delle ragazze e delle donne tra i 15 e i 35 anni non abbia mai fatto una? Possiamo parlarne fino allo sfinimento al primo festival del ciclo mestruale, certo, dimenticandoci volontariamente che il tema è, soprattutto, politico. E che il PD, il principale partito progressista italiano, conti una delegazione interamente maschile al Governo è, in tal senso, un dato da non sottovalutare. L’introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico («Onorevoli colleghi, per quanto siano forti i sentimenti che uniscono un uomo e una donna, essi possono anche mutare») e la legge 194 del 22 maggio 1978 che depenalizza e disciplina la modalità d’accesso all’aborto dovrebbero avercelo insegnato: il motore, oltre che da una sinistra laica, sovente extraparlamentare, è sempre stato acceso dalle donne.
«A me che vengano fatte delle ministre non interessa, mi interessa che facciano la politica delle donne, cioè una politica che non confonde autorità e potere. E chiedo: l’hanno fatta?», si domanda Luisa Muraro sul Post. La risposta è sconfortante: le donne, le intellettuali, le attiviste che dovrebbero praticarla (leggi: pressando la dirigenza del partito, scendendo in piazza, manifestando, pretendendo dei cambiamenti concreti) preferiscono presidiare Instagram, essere «divulgatrici mestruali», polemizzare online, dare – come diceva la mia nonna – aria ai denti. Da donna, sono stufa di dibattere continuamente di mestruazioni, di assorbenti, di endometriosi, di sindrome premestruale e di vulvodinia: parliamo, parliamo, rendiamo pubblici pure gli aspetti più privati, e poi rimaniamo sempre lì, con le nostre rimostranze individuali e senza mai aver concluso nulla a livello collettivo.
Abolizione della possibilità d’obiezione di coscienza da parte dei ginecologi; una distribuzione più equa delle responsabilità genitoriali grazie al congedo di paternità obbligatorio; contraccezione mutuabile; una legge specifica sulla violenza ostetrica e ginecologica; l’istituzione di ambulatori su tutto il territorio che offrano prestazioni ginecologiche non dico gratuite, ma a tariffe agevolate per chiunque. Sbattiamoci per ottenere quei grandi cambiamenti solo apparentemente impossibili che non interessano soltanto una minoranza, bensì tutte le donne: non dal divano di casa mettendo cuoricini, ma attraverso una partecipazione attiva che richiede dedizione, un minimo di sacrificio e determinazione.
Qualche giorno fa, al telefono con mia madre, abbiamo lungamente discusso del ’68, degli anni di piombo, della lotta armata e degli stravolgimenti politico-sociali di cui è stata spettatrice. «Che anni incredibili che avete vissuto», ho commentato. «Sì, è vero, furono incredibili», ha replicato lei, «peccato che all’epoca non ce ne rendessimo conto fino in fondo». Ecco, a differenza sua, io sono pienamente consapevole di stare vivendo forse gli anni più stupidi di sempre, e all’ennesima disputa social sulla nevralgia del pudendo mi autoconvinco che probabilmente non saranno mai «incredibili». Chissà se, con un po’ d’impegno, riusciremo almeno a farli diventare meno scemi.