Circus of Books è tra i più recenti documentari a tema LGBT di Netflix: la regista Rachel Mason riprende i genitori, Karen e Barry, una coppia di anziani ebrei apparentemente tiepida e tradizionale, e ripercorre con loro i passi che li hanno portati ad aprire e gestire quello che è stato un popolare negozio di materiale pornografico gay di West Hollywood, tra DVD, riviste, lubrificanti, sex toys, nonché luogo di cruising.
I Mason sono caratterizzati da un interessante dualismo: i figli descrivono la madre, Karen, come una “alpha woman”, determinata a ottenere ciò che vuole ma mai troppo severa; il padre, Barry, viene presentato come un uomo mite e sereno, “una delle poche persone felici per natura”. Lei giornalista, lui inventore, i Mason trovano un’occasione quando il proprietario di uno store di magazine porno gay sulla Santa Monica Boulevard si trova costretto a chiudere. I due acquistano il negozio, cambiando il nome da “Books Circus” a “Circus of Books”, acquisendo presto popolarità tra la comunità gay della zona: negli anni in cui il turbo-tradizionalista Ronald Reagan era presidente, e in cui “l’omosessualità non si poteva neanche nominare”, lo store diventa un importante epicentro e safe space per la comunità gay di Los Angeles, offrendo un luogo in cui aggregarsi, confrontarsi, far sesso.
D’altra parte il porno, come sostiene uno dei clienti del negozio, ha sempre avuto un ruolo centrale nella comunità gay. Di recente con un amico riflettevamo sulle influenze sulla comunità, arrivando alla conclusione che probabilmente drag queen e pornografia sono tra le più rilevanti. Costruiamo buona parte della nostra identità sulla sessualità e il porno in particolare fornisce, al di là di sensi di colpa e tabù vari, uno spazio in cui esplorare il sesso omosessuale, altrimenti trascurato dai media. È interessante notare come i performer di quei porno che ora definiamo vintage, quelli della golden age di Circus of Books, siano tutti molto simili: caucasici, biondi, senza peli, muscolosi, in contrasto con la maggiore varietà che troviamo oggi, promossa dalla diffusione di performer amatoriali.
Una buona parte del documentario è dedicata al rapporto tra i Mason e le istituzioni, impegnate a più livelli in una crociata contro l’oscenità e il porno; si vedono politici che lo definiscono “un attacco alla famiglia e alla società”, in contrasto a personaggi come il pornografo Larry Flint, che viene ricordato per aver combattuto contro la censura negli anni ’70 e ‘80. C’è una continuità tra il puritanesimo istituzionale e la marginalizzazione di quelle persone considerate diverse e “degenerate”, e che si traduce, tra le varie discriminazioni, nel silenzio rispetto all’epidemia di AIDS, e nella stigmatizzazione delle persone positive all’HIV, che venivano invece accolte o assunte dai Mason quando venivano cacciate di casa o perdevano il lavoro.
Date le interazioni e l’intesa con la clientela omosessuale, sorprende la reazione ostile di Karen quando il figlio, Josh, fa coming-out come gay, atteggiamento che lascia intendere una spaccatura tra la vita lavorativa, focalizzata su affari e profitto, e quella personale, profondamente influenzata dalla religione ebraica di cui era praticante. Non a caso cerca in tutti i modi di nascondere i contenuti del suo lavoro, non utilizza mai la parola “porno”, quando le viene chiesto risponde vagamente che gestisce una libreria e quando i membri della Sinagoga che frequenta scoprono di cosa si occupa cercano di allontanarla, proprio a causa dello stigma che colpisce tutt’ora chi è legato all’intrattenimento per adulti. Karen ricorda con dispiacere la propria reazione al coming-out del figlio e, come afferma lei stessa, capisce “di avere un pensiero sui gay che doveva cambiare”. Le sue preoccupazioni paternalistiche mi ricordano quelle di alcuni genitori che più volte mi è capitato di sentire, come “la paura che la vita dei miei figli possa essere difficile in quanto gay” o “non ho problemi con l’omosessualità, ma non lo vorrei per mio figlio”, quando poi il supporto familiare contribuirebbe ad arginare buona parte di quelle difficoltà. Ad oggi, Karen sembra aver risolto questo conflitto impegnandosi attivamente per i diritti LGBT, facendo parte insieme al marito di un gruppo di ascolto per genitori di persone LGBT e manifestando attivamente ai Pride.
Il documentario si conclude con Karen che chiude il negozio, che da diversi anni stava accusando un significativo calo delle vendite dovuto allo spostamento del consumo di porno dagli store fisici di DVD a internet. Ma se da un lato il porno non è più legalmente perseguibile, almeno da questa parte del mondo, dall’altro continua a essere stigmatizzato: brand mainstream, salvo rarissime eccezioni, non si sponsorizzerebbero mai su un sito porno, Facebook e Instagram hanno delle politiche restrittive rispetto a nudo e pornografia – visto che impiegano pochi secondi a cancellare capezzoli femminili – e il porno in generale è ancora demonizzato.
Parallelamente, anche la comunità queer si è spostata online, tra aggregazioni sui social e ricerca di relazioni e/o sesso tramite app di dating, che arginano il bisogno di uno spazio come Circus of Books. In un’intervista, la regista sottolinea l’esistenza di un gap generazionale e come noi che viviamo l’era di internet probabilmente non riusciamo a capire quanto un luogo del genere fosse importante per gli uomini gay di quegli anni, che vedevano nei magazine e film porno un riconoscimento della propria sessualità e un’occasione per unirsi e liberarsi, al di là una società che, ieri più di oggi, li marginalizzava ed escludeva.