C’è qualcosa di più riconoscibile e iconico di quella faccina giallina con due punti come occhi e una riga di sorriso smagliante? Un disegno così semplice, fanciullesco, che sembra presente – da sempre – nella cultura occidentale. Ma è davvero esistito un periodo in cui, nella nostra cultura, non fosse presente? Certo, ma sembra così lontano e impossibile che non ne abbiamo ricordi.
Un cerchio, una curva, due punti: tre segni grafici che contraddistinguono l’icona pop più nota della cultura moderna. È questa l’icona scelta per la dodicesima edizione di Future Vintage, il festival del lifestyle e della comunicazione che esplora l’origine delle tendenze contemporanee che quest’anno si svolgerà dal 10 al 12 settembre tra il centro culturale San Gaetano, un ex tribunale del XVI secolo nel pieno centro storico di Padova, i Giardini dell’Arena e il Parco della Musica, tra talk show, workshop, street culture, comedy e la musica, tra i tanti, di GrandMaster Flash, Massimo Pericolo, Samuel, Joan Thiele, Pino D’Angiò.
Ma qual è la storia dietro quest’icona senza tempo? Harvey Ross Ball disegna lo smile in 10 minuti, nel 1963, per 45 dollari. La faccina, che rispetto a come la conosciamo è meno simmetrica, è pensata per risollevare il morale degli impiegati di una compagnia di assicurazione in Worcester, Massachussets, la State Mutual Life Assurance Company. Meno di dieci anni dopo, in pieno periodo hippie, diventa un simbolo di positive propaganda quando due fratelli di Philadelphia, Bernard e Murray Spain, iniziano a commercializzare prodotti (tazze, sveglie, magliette e quant’altro) in cui la faccina sorridente è accompagnata dalla scritta ‘Have A Happy Day’, arrivando a vendere fino a 50 milioni di unità all’anno. Nel 1972 appare sulla copertina dell’iconico magazine americano Mad, nel 1977 sulla copertina del singolo più importante della carriera dei Talking Heads, Psycokiller, e nel 1980 sull’artwork di California Über Alles, disco di una delle band più provocatorie di sempre, i Dead Kennedys. Nel 1986 cambia ancora destinazione, e Alan Moore e Dave Gibbons lo insanguinano per Watchmen, fumetto iconico nel portare una svolta dark all’interno dell’universo dei supereroi.
Procedendo a zig zag nella storia, lo smiley diventa così simbolo contro-culturale nella second summer of love in UK a fine degli Anni Ottanta, come racconta Simon Reynolds nel suo celebre saggio sulla scena rave, Energy Flash. I dj e organizzatori Paul Oakenfold e Danny Rampling lo utilizzano come estetica dei propri party perché – come racconta Rampling in Acid House: The True Story – è l’emblema perfetta di un movimento fatto di ‘sorrisoni e positività’. È il periodo dell’acid-house e dei primi rave, un momento euforico per la formazione della cultura del clubbing. In quegli anni lo smiley appare su un’infinità di flyer dell’epoca (come quelli dello Shoom Club di Rampling), e su molte copertine, prima su tutte quella di Beat Dis di Bomb The Bass del 1988. A pensarci, quel giallo sorridente è l’estetica perfetta per un esercito di giovani in fuga dal governo thatcheriano verso una libertà edonistica.
Nei Novanta arriva un altro momento dello smiley, un’altra mutazione, un’altra reinterpretazione. La faccia sorridente si inacidisce, si fluidifica, e con gli occhi sbarrati e una certa ironia di fondo collassa nel logo della più importante band del decennio, i Nirvana. Il logo appare per la prima volta in un poster di lancio di Nevermind, il disco che consacrerà nella storia la band di Kurt Cobain.
Come gli stessi Nirvana, e lo stesso grunge, lo smiley ancora una volta balla tra cultura mainstream e contro-cultura, insediandosi in entrambi i lati della medaglia senza alcuna difficoltà. Probabilmente la migliore analisi di quest’icona è rappresentata da una frase di uno dei più importanti dj e produttori inglesi, Fatboy Slim, che allo smiley ha dedicato lo Smile High Club, una serie di show a tema: lo smiley è sempre di moda ed è sempre un po’ fuori moda. Non a caso negli ultimi anni è stato utilizzato da brand come Moncler, Marc Jacob, Moschino quanto da collection più pop come Drew (il fashion brand di Justin Bieber) e il merchandising della dj Peggy Gou. Lo smiley è di moda perché non è di moda mai, citando gli Articolo 31.
Ora che la happy face è entrata anche nel nostro vocabolario, probabilmente non ce ne libereremo mai, ma a noi va bene così: quando un simbolo rappresenta positività, inclusione e democrazia, è un piacere sapere che continuerà a diffondersi anche nei momenti più bui della nostra epoca, nella gioia mainstream quanto nella ribellione controculturale. Smile is back!