«Non avrei mai immaginato di trovarmi dove sono ora, da ragazzo sognavo di fare lo scrittore e non avevo nessuna intenzione di lavorare nell’azienda di famiglia, figuriamoci di esserne a capo», racconta Dani Reiss, presidente e CEO di Canada Goose. A pochi metri da lui, nel mastodontico flagship store milanese da 400 metri quadrati in via della Spiga, alcuni clienti provano parka e piumini dentro un camerino termico, denominato Cold Room, dove la temperatura tocca i meno 25 gradi centigradi. Un gioco da ragazzi per i giubbotti del brand canadese, testati per raggiungere i meno 70 gradi, ma tanto basta a portare un tocco artico fra le strade più celebrate dal fashion business mondiale. Reiss sembra particolarmente emozionato: «Aprire il nostro secondo store europeo in questa strada è un sogno che diventa realtà, come un cerchio che si chiude. D’altronde la rinascita del nostro marchio parte soprattutto dall’Italia».
Fondata con il nome di Metro Sportswear nel 1957 dal nonno paterno Sam Tick – arrivato in Canada dalla Polonia, in fuga dall’Olocausto – l’azienda parte da un piccolo magazzino di Toronto, per sopperire alle richieste di chi, a temperature estreme, doveva lavorarci tutti i giorni, dai ranger delle foreste canadesi fino agli esploratori artici. Insomma, capi d’abbigliamento ‘tecnici’, come direbbero i profani, destinati a una clientela di nicchia. Ma quindi, com’è potuto accadere che una piccola fabbrica di giubbotti si trasformasse nel colosso mondiale che è oggi? Soprattutto se si pensa alla crescita del capitale intorno al 2000% registrata nell’ultimo decennio dall’azienda, che oggi conta quasi 4000 dipendenti in tutto il mondo, senza mai spostare la produzione dal suo Paese natio. «Ho capito il potenziale di Canada Goose quando ho scoperto che questo brand aveva un significato per le persone: la natura selvaggia, il freddo estremo del nord, i viaggiatori che esplorano le zone più impervie del mondo. In quel momento ho capito che Canada Goose poteva diventare il protagonista di una storia», aggiunge Reiss, l’uomo dietro il successo planetario del brand. Proprio lui, che ha iniziato controvoglia la sua carriera nel business.
Infatti, da ragazzo, sognavi di fare lo scrittore.
Esattamente, all’università ero iscritto a Lettere e Filosofia e persino mio padre, da cui ho ereditato la guida dell’azienda nel 2001, mi sconsigliava di intraprendere la sua stessa carriera. Quando ero studente non ero minimamente interessato a entrare nel mondo del business, scrivevo racconti e sognavo un futuro nella letteratura. Fu quando decisi di intraprendere un viaggio per trovare l’ispirazione per i miei racconti che tutto cambiò.
In che senso?
Avevo bisogno di mettere soldi da parte, e così iniziai a lavorare per l’azienda di famiglia. Ho ricoperto ogni posizione, dal magazziniere, all’archivio fino all’operaio in fabbrica. Per i primi tre mesi odiavo quel lavoro, perché mi ero sempre promesso che non avrei chiesto aiuto ai miei genitori. Tuttavia, dopo qualche tempo – soprattutto quando venni spedito in Europa per un viaggio di lavoro – capii che il brand aveva un potenziale enorme: raccontava la storia e la natura del Canada e le persone che compravano i nostri giubbotti lo facevano soprattutto per trovare nei capi Canada Goose quel significato. È stato quando ho capito tutto questo che ho iniziato ad amare alla follia questo brand.
Ed è stato in quel momento che hai chiesto a tuo padre di guidare l’azienda, quando hai capito di avere un’idea per lanciare Canada Goose oltre i confini del brand ‘tecnico’?
Si, perché avevo scoperto che in Europa Canada Goose era amato anche da chi non faceva l’esploratore (ride, ndr). Avevo capito che il pubblico amava i nostri prodotti perché sapeva che, indossando un cappotto Canada Goose, avrebbe potuto scalare una montagna senza sentire freddo, sentirsi come chi attraversa il Polo Nord in missione, e questa è stata per me una folgorazione. Avevo 27 anni quando ho iniziato a guidare il brand in questa direzione, e continuavo ad occuparmi di tutto, ma in particolar modo seguivo la comunicazione.
Infatti, una delle tue prime strategie di marketing è stata regalare i vostri giubbotti ai lavoratori costretti ad affrontare temperature estreme ogni giorno, dai buttafuori fino agli esploratori, passando per i macchinisti che lavoravano sui set dei film…
…fino a chi vendeva i biglietti fuori dagli stadi (ride, ndr). Non avevamo soldi per permetterci campagne pubblicitarie imponenti, per cui pensai che regalare i nostri capi a persone che lavoravano all’aperto, al freddo e sotto gli occhi di tutti, potesse essere una buona strategia per farci conoscere dal pubblico. Poteva accadere, ad esempio, che su National Geographic apparisse una foto di un esploratore con addosso un parka Canada Goose, o che un attore sul set indossasse uno dei piumini che inviavamo ai macchinisti. E così è successo, in maniera piuttosto spontanea.
Insomma, è come se tu avessi inventato i primi influencers
Diciamo di si (ride, ndr). Infatti, quando sono arrivati i social media sul mercato, con Canada Goose eravamo già preparati ad affrontare quel linguaggio, e fu molto naturale per noi adottare quel tipo di comunicazione ‘dal basso’, per cui i tuoi primi testimonial possono essere le persone comuni. D’altronde, poi, il concetto stesso di influencer si basa sulla capacità di raccontare una storia in un linguaggio diverso da una normale campagna pubblicitaria. Ho sempre fatto molta attenzione alle parole con cui veniva comunicato il messaggio di Canada Goose, perché credo fermamente che le parole abbiano un potere emozionale immenso sulle persone.
E qui tornano la tua passione per la letteratura e per i racconti. Credi che il tuo passato da scrittore e i tuoi studi umanistici abbiano influito sull’idea di business con cui hai modellato Canada Goose?
Ne sono convinto. Probabilmente se avessi studiato economia, o avessi applicato a Canada Goose dei modelli di marketing tradizionale, forse oggi il brand non sarebbe quello che conosciamo oggi. Per dare un nuovo significato a Canada Goose bisognava guardarlo con lenti diverse, in modo da far emergere quel potenziale e quell’immaginario già insito nella sua storia e nelle sue radici. La mia scommessa è stata quella di riuscire a raccontare il Canada e l’estremo nord attraverso giubbotti pronti a qualsiasi temperatura, ma destinati al consumo al dettaglio. È stata un’idea creativa arrivata al momento giusto, ma questo genere di idee non le trovi nei testi di economia o studiando un business case.