Poteva essere una storia incredibile e mai raccontata. Invece, per fortuna, qualcuno ci ha pensato a imprimerla nero su bianco, accompagnandola da immagini di repertorio altrettanto incredibili. Il pericolo è il mio mestiere, a cura di Alessia Gurrado e Massimo Lombardo (Argantia) è il libro che racconta l’epopea del fachiro Mustafà, divenuto una star del fuoco a Milano tra gli anni ’70 e ’80.
Col petto nudo pieno di tatuaggi e il turbante di ordinanza in testa, Mustafà ha sputato fuoco, spezzato catene, camminato sui vetri e si è fatto addirittura conficcare 500 aghi addosso per entrare nel Guinness dei Primati (nel 1993).
Chiunque sia passato anche solo una volta in piazza Duomo a quel tempo (forse) se lo ricorderà. Un lenzuolo steso per terra, la sigla d’inizio sulle note di Mustapha dei Queen – “Mustapha, Mustapha, Mustapha Ibraaaaahim!” – e uno spettacolo fatto di fiamme e non solo, con cui intratteneva il pubblico con un divertimento tutto suo, e una musica di sottofondo ritmata e travolgente.
Per dare un’idea: Mustafà diventò così popolare che nel 1984, durante il concerto dei Queen a Milano, il pubblico a un certo punto cominciò a urlare “Mustafà! Mustafà!”, costringendo Freddie Mercury a intonare il ritornello di quella canzone fuori repertorio, come potete ascoltare al minuto 29:57 di questo video:
A dispetto del nome (d’arte) e dell’aspetto volutamente esotici, Mustafà era italiano: era nato nel 1953 a Massafra, in provincia di Taranto, e all’anagrafe si chiamava Francesco Balestra. È morto l’anno scorso a 65 anni, in solitudine e povertà, come esige ogni liturgia d’artista che si rispetti.
A Milano emigrò nel 1979 cercando lavoro come mago, dopo avere imparato l’arte da prestigiatore in un circo (e dopo avere fatto all’occorrenza anche il muratore e lo scippatore). «Non avevo voglia di lavorare e per giustificare la mia pigrizia dicevo che non trovavo lavoro, ma non era vero. Dopo due mesi, finiti i soldi tra viaggi e alberghi, dormii per tre notti in stazione a Lambrate», racconta nel libro.
Una notte, però, in stazione incontra Katiuscia, «una trans di grande umanità che faceva la veggente». Katiuscia gli dà una mano a esibirsi in un bar gay di Milano e, due mesi e parecchie esibizioni dopo, Mustafà viene assunto al Rick’s Cabaret di Via Fieno, un locale storico dove si esibivano i nomi più famosi dello spettacolo en travesti europeo, e non solo. Fu durante quelle notti della Milano da bere – o «da bene», come la chiamava lui – che Mustafà incontrò persone e personaggi di tutti i tipi: rockstar come Eric Clapton, calciatori come Pelé, conquistando tutti con il suo talento altamente infiammabile.
Fu però in strada che raggiunse la grande popolarità. Tra il 1981 e 1982 diventò il veterano delle piazze: «Tutti mi aspettavano e i bambini mi riconoscevano», racconta nel libro. «Spesso i ragazzi venivano sotto casa e io sputavo fuoco dal balcone per salutarli. Che te ne fai del palcoscenico, se nelle piazze ricevi emozioni impagabili?».
In piazza, tuttavia, non ricevette solo emozioni, ma pure multe, e tante, per occupazione di suolo pubblico. Raggiunse l’astronomica cifra di un miliardo di lire da pagare. Non pagò mai una multa, sia chiaro. «Se la multa fosse stata 10 mila lire», diceva, «andrebbe bene: ne incasso 50, un po’ ne tengo per me, un po’ ne do al Comune. Ma 400 mila lire tutte insieme, chi le ha mai viste?».
Negli ultimi anni, Mustafà diceva di sé: «Sono un miliardario. Di debiti, ma pur sempre un miliardario».
In nome della libertà, per anni snobbò le discoteche, rifiutò le offerte delle agenzie artistiche, le comparsate in tv. Almeno fino a quando i divieti e le regolamentazioni per gli artisti di strada non si fecero insostenibili, e allora ecco che lo ritroviamo anche a Fantastico, I fatti vostri, al Maurizio Costanzo Show, ospite fisso da Chiambretti, a Domenica In.
Mustafà protestò tutta la vita contro quei divieti. Nel 1989 venne addirittura messo alla guida di una manifestazione sotto al Comune di Milano, incassando il plauso e il sostegno di Dario Fo. Ma la sua impresa più famosa è quella del 1989, quando in occasione della visita di Mikhail Gorbaciov a Milano, s’incatenò sul tetto della Galleria Vittorio Emanuele: quando passò, Gorbaciov lo vide e lo salutò. In mondovisione.
Quello fu il suo atto più grande, leggendario, ma anche l’ultimo. Qualche anno dopo Mustafà si ritirò dalle scene e tornò nella sua Massafra, a occuparsi di alcuni terreni. Da allora, di lui, si sono praticamente perse le tracce, a parte qualche esibizione e/o protesta sporadica qua e là. Era molto più facile incontrarlo al bar La Tazza d’Oro nel centro storico di Massafra, dove era impossibile non notarlo (per aspetto e tono di voce).
Il 28 gennaio 2020 Mustafà è morto, ma con lui non sono morti né i ricordi né la forza di una vita vissuta sempre nel segno della libertà. E dell’odore acre di petrolio.