Con oltre cinque decenni di presenza sui palcoscenici più prestigiosi – dalla Scala di Milano al Metropolitan Opera di New York, passando per la Royal Opera House di Londra e la Wiener Staatsoper e molti altri – Nucci ha interpretato una vasta gamma di ruoli diventando un punto di riferimento per l’interpretazione verdiana.
La sua carriera è stata arricchita dalla collaborazione con maestri del calibro di Herbert Von Karajan, Georg Solti, Riccardo Muti, Claudio Abbado, e Zubin Mehta, nonché dalla partecipazione a produzioni che hanno segnato la storia dell’opera.
Inoltre, la sua esclusiva decennale con la storica etichetta discografica britannica DECCA ed altre, testimonia l’alto livello delle sue incisioni artistiche, accanto a nomi illustri come Luciano Pavarotti.
Abbiamo l’onore di intervistare Leo Nucci reduce da una meravigliosa tournée in Giappone e atteso a maggio in Oman alla Royal Opera House di Muscat con Sonya Yoncheva per un concerto straordinario in omaggio a Maria Callas.
Lei ha avuto una carriera straordinaria, signor Nucci. Ricorda qual è stato il momento in cui ha deciso che sarebbe diventato un baritono, un interprete dell’opera? E quando ha capito che avrebbe fatto questo per tutta la vita?
La mia “carriera” è stata senza dubbio lunga. Ho messo piede sul palcoscenico di un teatro d’Opera nel marzo 1966. Era il Comunale di Bologna e facevo un piccolo ruolo: il maggiordomo nell’Adriana Lecouvreur di Cilea, con protagonista la grande Antonietta Stella. E nel 1967 mi hanno fatto debuttare a Spoleto: Figaro nel barbiere di Siviglia. Son passati 68 anni. Naturalmente avevo già fatto concerti perché avevo iniziato a studiare il canto lirico a Firenze con il Maestro Mario Bigazzi nel gennaio del 1958. Ma nel frattempo da quando avevo 15 anni lavoravo, perché uscivamo dalla guerra. Il Maestro Bigazzi era un fiorentino doc, un personaggio straordinario. Era stato portiere di riserva della grande Fiorentina e appassionato di canto. Tutto è nato per caso, lui passava un giorno dal mio paese, Castiglione dei Pepoli, e mi sentì cantare dalla finestra “Vieni c’è una strada nel bosco” e volle conoscere i miei genitori. Insomma, io ho sempre cantato, ma non ho mai pensato di fare carriera. Ho sempre fatto questo lavoro con gioia e le assicuro che è un lavoro troppo bello.
C’è un’esperienza o un incontro che considera particolarmente formativo o significativo nella sua carriera?
Incontri ovviamente ne ho avuti tanti, ad esempio con il soprano Gigliola Frazzoni, celebre Minnie nella Fanciulla del West alla Scala, che mi mandò a studiare a Bologna dal suo Maestro Giuseppe Marchesi. Avevo sempre amato il teatro e la musica, a nove anni entrai nel corpo bandistico del mio paese Castiglione dei Pepoli. Suonavo il flicornino basso in si bemolle (Bombardino) cioè il baritono della banda, guarda caso. A scuola quando si facevano recite scolastiche ero sempre il protagonista. Non so perché, ma ho sempre saputo che avrei fatto questo mestiere o similare.
Il suo nome è indissolubilmente legato a Verdi, in particolare al ruolo di Rigoletto, che ha interpretato in più di 500 recite ufficiali. Cosa rende questo ruolo così speciale per Lei?
Le recite ufficiali di Rigoletto che mi risultano sono ad oggi 546 più 89 generali con pubblico, facile intuire che fra prove studio eccetera avrò cantato diverse migliaia di volte questo ruolo per il quale penso di aver avuto il fisico e la capacità di attore adeguati. Giudizi vocali e interpretativi li lascio ovviamente agli altri, però forse la veemenza e gli acuti che la natura mi ha concesso di avere nell’atto più spettacolare, il secondo, forse sono stati particolari e abbastanza irripetibili. È stato sempre un divertimento e una sfida interpretarlo cercando di essere in qualche modo diverso ad ogni recita perché il mestiere dell’attore lo impone, però molti atteggiamenti del personaggio non li amavo: li interpretavo, ma non li amavo. La prima opera da ragazzino la vidi al cinema con Tito Gobbi e Mario Filippeschi ed era proprio Rigoletto. Ma i ruoli con cui più identifico, un po’ come due facce della stessa medaglia, sono da un lato il Doge Francesco Foscari, grandissimo ruolo di padre verdiano, e dall’altro quel mascalzone di Figaro del barbiere di Siviglia o Belcore nell’Elisir d’amore, spensierato e un po’ mattacchione.
Ha avuto l’opportunità di lavorare con alcuni dei più grandi direttori d’orchestra e cantanti di tre generazioni diverse. C’è qualche collaborazione o momento sul palcoscenico che ricorda con particolare affetto?
Ho cantato sotto la direzione di tutti i più grandi Direttori d’orchestra della seconda metà del 900 fino ad oggi e perciò non vorrei fare nomi perché per me sono stati tutti un grande insegnamento e fonte di gioia nel fare musica, comunque per non sfuggire la domanda confesso di avere avuto un rapporto particolare con Sir George Solti e una esperienza umana che non potrò dimenticare con Herbert von Karajan. Per un’amicizia particolare vorrei citare Nello Santi il Direttore dalla memoria assoluta. Per i cantanti ci sono i dischi che parlano, pochi però sanno che ho avuto modo di cantare il Silvio nei Pagliacci con Mario Del Monaco e nella Carmen con Richard Tucker, il tenore di Toscanini, oppure concerti con Ferruccio Tagliavini e Giuseppe di Stefano, leggende del mondo dell’Opera.
Il suo impegno nel trasmettere la passione e la tecnica del canto operistico alle nuove generazioni è ammirevole. Quali considerazioni la spingono a dedicarsi con così tanto fervore all’insegnamento e alla direzione di giovani talenti?
Per mia visione personale ho scelto di concentrarmi su masterclass per cantanti già formati, poiché ritengo che il mio contributo possa essere più incisivo in questa fase. Molto semplicemente, io cerco di aprire la mente agli allievi alla comprensione delle indicazioni dei compositori, analizzando nota per nota, pausa per pausa il pensiero messo nel testo musicale o poetico. Niente è stato scritto per caso. Oggi si tende al solfeggio fine a se stesso o a una certa interpretazione dei testi in modo diciamo libero; le prove e gli approfondimenti musicali sono sempre più rari. Si fanno lunghe prove di “regia” per mettere in scena il pensiero di un “regista” che quasi sempre va volutamente nella direzione opposta a ciò che è scritto dall’autore. L’Opera nasce in un periodo di estetica e contenuti sociali o morali che poco hanno da spartire con oggi, nel mio piccolo cerco di far capire e di capire io stesso cosa significasse cantare: “Per me giunto è il di supremo” oppure: “Bada sotto il guanciale c’è la cuffietta rosa” con il ritenuto scritto sopra i due RE. Ogni tanto penso come in quel film straordinario che è “Bellissima” di Luchino Visconti, con la Grande Anna Magnani, la colonna sonora comincia con il “coretto” delle ragazze dell’”Elisir d’amore” di Donizetti e termina con l’aria sempre dell’Elisir “Quanto è bella, quanto è cara” eseguite dall’orchestra diretta dal grande Maestro che fu Franco Ferrara. In tutte le epoche della storia umana teatro e architettura sono stati lo specchio della società.
Dopo una vita dedicata all’opera, c’è ancora qualcosa che desidera realizzare o esplorare nel mondo della musica?
Non posso negare di avere dedicato la mia vita all’Opera, la cosa che però cerco e ho sempre cercato di realizzare è vivere. Il dono che la natura ha voluto farci è la Vita; la luce l’aria i colori, i profumi, i suoni, ecco i suoni armonici e melodiosi mi fanno vivere. Io sono curioso, ho tanti hobby (ciclismo, cavalli, cucina, volo, modellismo) e per esempio a 74 anni ho iniziato a studiare il violoncello e quando riesco suonando ad eseguire un suono giusto, bello, mi sento in paradiso. Ecco cosa cerco di realizzare.
Riflettendo su una carriera che abbraccia oltre cinque decenni, quali momenti considera pietre miliari del suo viaggio artistico e quali lezioni ha imparato da queste esperienze che potrebbero ispirare i giovani artisti oggi?
La lezione che ho imparato e che consiglierei è quella di essere pronti sempre ad ogni occasione. E lo si è solo studiando. E si deve studiare prima di tutto per se stessi. Momenti come le sostituzioni che ho avuto occasione di fare nel Barbiere di Siviglia il 30 gennaio 1977 alla Scala o nella Luisa Miller nel 1978 al Covent Garden di Londra dove c’erano Pavarotti e la Ricciarelli direttore Maazel mi hanno cambiato la vita, ma ero pronto… prontissimo!
Oltre ai prestigiosi teatri europei, la sua carriera l’ha portato anche oltre oceano, esibendosi in luoghi emblematici come il Metropolitan Opera di New York. Come ha percepito le differenze culturali e di pubblico tra i vari paesi in cui si è esibito?
In USA ho cantato in tutti i teatri più prestigiosi e al Metropolitan di New York mi pare 164 recite con nuove produzioni di Rigoletto e Trovatore con Luciano Pavarotti. Ci sono parecchie incisioni e video anche se nel libro di un sovrintendente di quel teatro non compare il mio nome… pare se ne sia dimenticato, ma i documenti e il pubblico dicono quello che ho fatto. Degli anni che ho frequentato quel meraviglioso teatro conservo tanti cartelloni con la scritta sold-out; oggi il sold-out oltreoceano mi dicono che sia molto raro. Io mi tengo stretto il ricordo del pubblico americano che veniva a teatro per sentire le voci e per sognare con allestimenti, all’epoca, bellissimi. Per il nostro lavoro non c’è dubbio che la Mitteleuropa sia la terra più propensa alla musica classica. Ma oggi più che mai, sia per pubblico che per esecutori, l’estremo oriente sta diventando la terra promessa; non esiste altra città del mondo che abbia tanti teatri d’Opera e sale da concerto quanti ne ha Tokyo. L’estremo oriente si sta impossessando con competenza e amore della magnifica Arte da noi inventata; La MUSICA. E non dimentichiamo che anche i nostri conservatori rischierebbero la chiusura senza gli studenti d’oriente.
A proposito di oriente, lei è reduce da una straordinaria tournée a Tokyo. Come nasce quest’idea di tornare in Giappone e cosa ha significato per lei re-incontrare questo pubblico?
È stata un’esperienza straordinaria, oserei dire unica. A quasi 82 anni suonati nel giro di tre giorni ho cantato un recital (al pianoforte Mº James Vaughan) e un concerto dedicato a Verdi (direttore Mº Francesco Ivan Ciampa, Tokyo City Philharmonic Orchestra) che hanno avuto un impatto fortissimo sul pubblico giapponese che tra l’altro mi conosce dal lontano 1981, quando arrivai la prima volta a Tokyo con la tournée della Scala. A me piace scherzare e dopo questi due concerti alla cena squisita che ci hanno organizzato mi chiedevano se ero felice di queste due serate. E lì mi è tornato alla mente un aneddoto del mio Maestro, Ottaviano Bizzarri. A metà del ‘900 al Teatro Manzoni di Milano si dava Rigoletto, protagonista il grande baritono Carlo Galeffi, all’epoca settantenne. Dopo il “Cortigiani vil razza dannata”, il Maestro Bizzarri tra il pubblico sentì i commenti di alcuni baritoni famosi dell’epoca seduti in sala forse speranzosi di farsi due risate ma che invece avevano dovuto ricredersi: “Ah, ci metterei la firma a cantare così a 70 anni!”. E Bizzarri prontissimo: “No, voi ci mettereste la firma a cantare così adesso!”. Beh, fatti questi due concerti a Tokyo nel giro di tre giorni con quel repertorio a ottant’anni… ci metterei la firma anche io! A parte gli scherzi, sono stato felicissimo e onoratissimo di essere tornato nell’amato Giappone perché ho vissuto un’emozione stupenda. Percepire l’amore di questo pubblico, felice per quello che trasmetti, sempre educatissimo ma anche incredibilmente prorompente nel ricompensarti, con applausi e lunghe file per salutarti alla fine del concerto, è un’emozione indimenticabile. E pensare che questa mia tournée a Tokyo doveva essere nel 2020, poi con la pandemia tutti i piani sono saltati… ma chi lo avrebbe mai detto che nel 2024 l’avrei recuperata e in questa forma!
Collaborare con direttori d’orchestra del calibro di Riccardo Muti e Claudio Abbado, e condividere il palco con altre leggende come Luciano Pavarotti e Plácido Domingo è indubbiamente per pochi meritevoli. C’è un aneddoto o un caro ricordo che porta con sé da queste esperienze?
Di aneddoti ne ho davvero tanti e preziosi ma ce n’è uno con Pavarotti che ormai molti sanno ma che mi diverte sempre raccontare. Per un periodo molto bello durato anni a New York era uso che andassimo a casa di Luciano a Central Park South nel suo bellissimo appartamento una volta appartenuto a Sophia Loren poi divenuto la casa di New York di Luciano per le cene all’italiana. Una sera nell’intervallo di “Elisir d’amore” al Metropolitan Luciano venne nel mio camerino – cosa che faceva spesso: era bellissimo l’ambiente all’epoca, c’era un va e vieni che sembrava ci fosse il mercato – e quella sera mi disse senza troppi preamboli: “Ciccio sai fare il vitello tonnato?”. “Certo!” risposi. E lui: “Allora domani lo fai tu!” E io: “Va bene, ma solo a condizione che mi fai fare anche la maionese.” E Luciano: “Sta a vedere che adesso sa fare anche la maionese!”, fra le risate di tutti. Così la sera dopo, grande sfida, ci trovammo: eravamo Carlo Bergonzi con la moglie la cara Adele, il Maestro Nello Santi la moglie Gabi, io e “al doturas” Umberto Boeri, naturalmente Luciano e la sua segretaria Giudy. Luciano e io ci mettemmo a fare la maionese e alla fine ci fu il giudizio insindacabile della cara Adele: “Eh ma Leo la fa buona come la faccio io!”. Applauso, risate generali e simpatico disappunto di Luciano al quale la maionese non era montata per niente, rimanendo una brodaglia. “Ciccio ma come hai fatto?” mi chiese. “Io ho solo girato il cucchiaio con garbo e costanza, tu hai risposto a dieci telefonate nel frattempo… ecco cosa vuol dire essere Pavarotti: non monta la maionese!” Risata generale specialmente di Luciano, che mi manca tanto!
Lei ha mantenuto una presenza costante e di spicco alla Scala di Milano, esibendosi in ruoli che spaziano dal barbiere Figaro a Macbeth. Qual è stato il significato di questo teatro nella sua evoluzione artistica e personale?
Il teatro alla Scala di Milano, città della quale mi fregio di essere Ambrogino d’Oro dal 1983, è stata e sarà sempre la casa della mia vita artistica e personale. Dopo il debutto ufficiale nel ruolo di Figaro nel Barbiere di Siviglia di Rossini (Spoleto 1967) cantai tre anni da solista per poi decidere di entrare al coro della Scala. All’epoca abitavo a Roma, andai a Milano, feci il concorso, mi presero, il Maestro del coro era Roberto Benaglio, entrai il 30 agosto 1970 e cambiò la mia vita. Dopo una settimana conobbi il soprano Adriana Anelli che frequentava il corso di perfezionamento al teatro alla Scala, perché essendosi diplomata al conservatorio di Parma ed essendosi classificata migliore diplomata dei conservatori italiani per la sezione canto lirico aveva ricevuto una borsa di studio. Nel 1973 eravamo già sposati! Paolo Grassi e Romano Gandolfi ci concessero all’epoca un permesso, così debuttammo al Teatro Salieri di Legnago nel Rigoletto: lei Gilda in dolce attesa di nostra figlia Cinzia e io Rigoletto. Il resto è la mia storia, la mia fortunata vita! Il 30 gennaio 1977, aveva già lasciato il coro, debuttai alla Scala come solista nel ruolo di Figaro nel Barbiere di Siviglia; fu un tale successo che da allora ho cantato quasi 300 recite con due inaugurazioni, varie tournée, dischi, video, 38 recite di Rigoletto con 6 bis e forse ho sgretolato anche qualche piedistallo.
Ripercorrendo le tappe di una carriera senza pari nel corso di questa conversazione con Leo Nucci, ci troviamo di fronte all’emblema dell’eccellenza nell’opera lirica.
La sua storia personale e professionale riflette un impegno incrollabile verso l’arte, sottolineato da una presenza significativa in oltre duecento recite al Teatro alla Scala e numerose esibizioni nei teatri più emblematici del mondo.
Le collaborazioni con figure iconiche del calibro di Herbert von Karajan, Joan Sutherland, e Plácido Domingo, tra gli altri, non solo hanno arricchito la sua esperienza artistica ma hanno anche contribuito a forgiare un’eredità indimenticabile nel panorama operistico globale.
Attraverso i suoi consigli ai giovani artisti e il suo impegno nell’educazione musicale, Nucci si pone come un faro di sapienza e guida per le nuove generazioni per tramandare e perfezionare il nostro patrimonio culturale.
Chiudiamo questa intervista ispirati non solo dalla traiettoria professionale di Nucci ma anche dal suo spirito generoso, testimoniando come la sua carriera trascenda i confini della performance per diventare un vero e proprio tesoro culturale condiviso.
Grazie, Maestro Nucci, per averci onorato con la sua profonda saggezza e per aver continuato a nutrire il mondo dell’opera come orgoglio italiano e con il suo inestimabile contributo.