Se ne stava facendo un gran parlare, di cose come il cuore pesato all’etto (che faccio, lascio? Lasci, lasci), del banchiere Mario Draghi, della crisi di governo con annesse scuole alberghiere a Massa Lubrense e connesse questioni di salsicce e sudori. Se ne stava facendo un gran parlare, dicevo, ma poi c’è toccato lasciare il carrello al reparto gastronomia per fare una capatina verso gli scaffali dei social, che, da qualche giorno a questa parte, hanno lì in bella vista la vera promozione dell’estate: la discussione sull’amara sorte di Instagram.
Come ogni grande battaglia che si rispetti, la cosa è partita dagli Stati Uniti con tale fotografa Tati Bruening, auto-promossasi paladina della causa che vuole il social delle foto – Instagram – tornare a essere quello che era: il social delle foto. Altro che questa roba qua di adesso, con le sponsorizzazioni che saltano fuori nel nostro feed e, quel che più è evidente, un’overdose di video (leggi anche: reel) che, spesso e volentieri, sono un riciclo di TikTok. Che diamine, siamo ancora pur sempre sull’Instagram della Ferry, guys, mica sul TikTok della D’Amelio. Così, sul profilo della fotografa californiana, la campagna è stata inaugurata e lo slogan messo lì, pronto: fate tornare Instagram… Instagram. E smettetela di costringerci a fare i video: noi tutti, qui, vogliamo solo vedere le foto carine dei nostri amichetti e dei loro gattini (ché i gattini ci stanno bene sempre, si sa).
Chiedere è lecito; condividere il post di @illumitati quantomai opportuno; firmare la petizione su Change.org vero atto di cortesia. Così scendono in campo sua maestà Kylie Jenner – aka: la regina di Instagram, dall’alto dei suoi 361 milioni di sudditi – e la sorella Kim Kardashian, a mettere in moto la fucina delle visualizzazioni del post a suon di stories che, ça va sans dire, fanno il giro del social e delle redazioni. Quasi due milioni di utenti iniziano a lasciare cuoricini d’approvazione, e quasi duecentomila firmano la petizione online, perché in tutto ciò, se c’è una cosa che è chiara a chiunque, è che le Kardashian sono tanto magnetiche quanto gli utenti dell’Instagram (che fu) sono pieni rasi di tale scimmiottatura di quell’altro (che è), Tik Tok.
Morale della favola: a quattro giorni dall’inizio della protesta, ieri Adam Mosseri, CEO di Instagram, ha condiviso un video (per l’appunto) dove, in sintesi, risponde a quel «Make Instagram Instagram again» con un sonoro: «Ve lo potete scordare». Tutto ciò, nonostante piovano commenti di disappunto da parte di influencer e creatori di contenuti più o meno noti, così come di vere celebrity e di vere persone qualunque, a cui il video di Mosseri sembra più un necrologio del social che era, piuttosto che la definizione di ciò che è e sarà. Ma lasciatemelo dire: che Mosseri non si facesse infinocchiare da Jenner & Co. era quantomeno prevedibile.
Altro che l’epidemia di colera della Mei-tan-fu di Somerset Maugham: Instagram è affetto da un morbo che miete più vittime e senza meno trambusto. Come definireste, d’altronde, quella malsana predisposizione delle persone a passare ore e ore a fare uno scrolling infinito pure tra i video più scemi che certuni si sono messi nella condizione di fare e, quel che è peggio, condividere? Se non malattia, la definirei meschina dipendenza. O forse silenziosa prigionia, che ci priva della capacità di uscire (e riuscire) ad afferrare il nostro tempo. Non saprei, e sono aperta ad altre legittime letture in merito.
Quello che so, tuttavia, è che i video brevi a mo’ di TikTok, che su Instagram si chiamano reel, funzionano talmente bene come catalizzatori di attenzione da rappresentare più del 20% del tempo che gli utenti passano sull’app. Dato, questo, che è stato reso noto da Mark Zuckerberg durante il resoconto dell’aprile scorso agli investitori di Meta, ma che per noialtri è un fatto tanto più evidente quanto più ci troviamo, forse nostro malgrado, a scorrere un video dietro l’altro nelle nostre pause caffè. Mettiamoci poi che di recente sono scesi in campo pure gli artisti, a fare la faccia corrucciata e a dire che le etichette discografiche li costringono a fare video su TikTok (e reel su Instagram, va da sé), pena la mancata pubblicazione di una loro canzone, che la spirale di video-dipendenza in cui siamo più o meno risucchiati diventa più tangibile del corpo di Mark Caltagirone.
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Posto che anche io rientro tra le nostalgiche dell’Instagram che fu, e posto che Adam Mosseri ha messo fine alle nostre illusioni, a questo punto la vera domanda è: a chi, sul serio, danno fastidio i reel? Chi, sul serio, ne ha da perdere dal loro potenziamento a Super Saiyan della comunicazione digitale? Noi semplici utenti che non vediamo più la foto-gattino del nostro ex compagno di classe ma una marea di video di gattini in giro per il mondo, oppure chi, con Instagram, fino adesso aveva portato a casa la pagnotta con le foto, e che dunque ora si trova a dover necessariamente fare un ulteriore (e più impegnativo) sforzo nella creazione dei propri contenuti?
Risposta breve: entrambi. Solo che, a vedere milioni di video di gattini sconosciuti, noialtri comuni utenti non abbiamo poi granché da perdere; forse, se proprio, da sbuffare. Mentre agli altri, quelli che su Instagram sono riusciti a farsi una fortuna, e talvolta senza neanche chissà quale grande qualità comunicativa o interesse da condividere, ancora non gli pare vero che la condanna ai video sia ormai definitiva. Parlano di forzatura, loro. Ma averne – in un lavoro qualunque – di forzature così: ci sarebbe da metterci la firma. Ovviamente, mentre ne facciamo un reel.