«Come si dice “spedizione” in inglese? Tuo padre mi ha dato una mano, ma credo di averla insultata per sbaglio. Mi ha bloccata». Sembrava un’onda anomala, ma ora ci ha travolti e siamo in piena mareggiata. Il trend di Vinted ha conquistato tutti, in primis mia madre, che non bazzica molto Internet e ora è incollata all’iPad da mattina a sera per concludere un deal. Diciamolo: Vinted è il Tinder della terza età, per chi cerca un’interazione con il mondo esterno con la scusa di un cappottino o un accessorio firmato da vendere a pochi euro. Regalando non pochi momenti di divertimento per il sottoscritto, ormai consulente ufficiale per le vendite casalinghe. Dalle francesi che la martellano per scendere a prezzi stracciati alle austriache che complottano (a sua detta) nei forum per segnalare il suo armadio: a sentire mia madre, sembra di avere di fronte un’azionista della Borsa di Milano. Se poi ci aggiungi il “lost in translation” tecnologico e linguistico, la frittata è fatta: in casa mia non si parla d’altro e, tra una contrattazione e un insulto al misterioso algoritmo, un po’ rimpiango i tempi in cui la mia preoccupazione principale era quella di distoglierla dalle fake news sul Covid.
Ma questa febbre non ha colpito solo la categoria della casalinghe. Complice Vestiaire Collective e le altre piattaforme un po’ più chic, la mania di comprare e vendere capi di seconda mano ha contagiato un po’ tutti. Dai miei amici che vogliono sbarazzarsi, semplicemente, di qualche pezzo del proprio guardaroba a quelli che ne hanno fatto un vero e proprio stipendio parallelo: la forbice è molto ampia. Ed è ampio anche il giro d’affari, contando le commissioni e il lavoro triplicato per i corrieri di mezzo mondo. Facendo i conti in tasca a Vinted, per esempio, arriviamo a circa 3,5 miliardi di euro solo nel 2021 e il balzo – manco a dirlo – si è registrato proprio nel primo biennio del Covid, nonostante la piattaforma si sia dovuta fermare, nel 2020, per precauzione sanitaria.
L’idea che sta alla base, tutto sommato, è pure buona e molto poco italiana: allungare la vita ai prodotti che non utilizziamo più, favorendo il second-hand e facendo felice il pianeta. Ma come in tutte le cose, genera due casistiche estreme di fruitori. Da una parte siamo di fronte a casi patologici, ovvero chi compra nei mercatini solo per rivendere qualche t-shirt, due minuti dopo, a pochi euro in più (un po’ come per il gioco d’azzardo, la febbre da vendita compulsiva genera mostri). Dall’altra parte, invece, ci sono episodi felici in cui l’acquirente chiede informazioni sul capo che sta acquistando, perché vuole conoscere la storia di chi l’ha indossato (che è un po’ lo spirito che dovrebbe muovere tutto quanto). Ed è commovente sapere di persone che chiedono realmente come e quando è stato indossato quel cappotto o quella borsa, per rivivere quell’emozione ed essere parte di un racconto altrui che va avanti, si tramanda di generazione in generazione, arricchendosi di nuove esperienze di vita.
«Le cose che possiedi, alla fine, ti possiedono»: questo diceva Tyler Durden in Fight Club nel lontano 1999. E se è vero che tutto ha un prezzo, anche i ricordi consumati dal tempo contribuiscono a calcolarlo, infondendo un fascino irresistibile agli oggetti che li racchiudono. Chi non è mai stato a un mercatino delle pulci? In fondo è tutto nato lì, prima di spostarsi su ampia scala: in quei luoghi affollati dove puoi trovare tutto e nulla al tempo stesso. La predisposizione alla scoperta è quello che conta: lasciarsi catturare dall’energia che alcuni oggetti possono sprigionare e attirare su di sé. Non so se vi è mai capitato, ma di recente ho sentito un venditore dire: «Questa spilla è sul mio banchetto da tanto tempo, ma solo tu e altre due persone, oggi, si sono interessate a lei».
Ovviamente può essere una messinscena, ma io voglio credere che ci siano davvero dei momenti particolari, dettati dal cosmo, dall’allineamento dei pianeti, o da chissà-boh-che-cosa, che fanno parlare alcuni semplici oggetti rimasti muti, per anni, al nostro passaggio distratto. Come se una forza o un desiderio inespresso nell’aria li avesse, all’improvviso, restituito tutto il loro valore, facendoli brillare ai nostri occhi come pietre preziose. E allora non si possiedono solamente delle cose, ma si indossano o si custodiscono degli amuleti o dei talismani, piuttosto, che ci ricollegano a una dimensione precedente e che, alla fine, ci aiutano a sintonizzarci con noi stessi; come delle sorti di chiavi magiche o di Stargate che fondono insieme passato, presente e futuro.
Un altro tipo di discorso va fatto sull’arte del collezionismo e della sua compravendita. Una materia che fino a poco tempo ricordava storie di francobolli e di velieri in miniatura in questi ultimi anni è tornata alla ribalta grazie alla tv: programmi come Affari di famiglia, Cash or Trash e il milanesissimo La mercante di Brera ne sono l’esempio più lampante. A metà tra antiquariato vero e il più classico svuota-cantine, il meccanismo di questi show fa leva sulle emozioni dei partecipanti e sulla nostra capacità di giocare con gli oggetti e il loro valore, illuminando qualcosa che fino a poco tempo fa era una zona d’ombra. In particolare Cash or Trash ci ha fatto capire che i mercanti d’arte sono compulsivi tanto quanto noi, più attratti dall’allure che un oggetto emana che dal suo valore effettivo (Stefano D’Onghia: ti si ama).
E quindi ci sentiamo, a momenti alterni, sia venditori che acquirenti, in questo continuo gioco delle parti che ha sullo sfondo nient’altro che il grado zero del commercio, ovvero quello one-to-one. Di nuovo, è tutto un pretesto per raccontarci ed entrare in contatto, attraverso gli oggetti, con il nostro universo interiore e condividerlo con gli altri. Con il rischio di prendere, a volte, delle cantonate tremende. E poi, confessiamolo: tutti noi viviamo nella speranza di possedere in soffitta – che sia un Topolino o una macchina da scrivere – un piccolo tesoro, magari ereditato dai genitori, che un giorno potrebbe svoltarci il conto in banca, se solo avessimo il coraggio e la dedizione sufficienti per metterlo all’asta o farlo valutare da uno bravo.
E la moda che fa? Sta a guardare? Non proprio. L’italiana Golden Goose fonda le sue radici proprio nel concetto di lived-in per i suoi prodotti, come le famosissime sneaker dall’effetto “usato” che spopolano a Milano Marittima e non solo. E questo lo sa bene anche Gucci, che nell’ultimo anno ha rilanciato sulla neo-piattaforma Vault parte dei propri capi e oggetti second-hand – o vintage che dir si voglia – per soddisfare quella fetta di mercato attratta più dal vecchio che dal nuovo. Tutti prodotti rimessi a nuovo e di lusso, chiaramente, ma il principio è sempre lo stesso: dare nuova vita a qualcosa che ha una storia o presunta tale, cavalcando il fascino senza tempo di un ready-to-wear o di un orologio recuperato dal passato.
Paradossalmente, in un’epoca iperconnessa e votata al qui e ora, una nuova generazione di consumatori ha fatto capolino. Una generazione che non ha nessun interesse a correre dietro alle ultime tendenze, ma è piuttosto interessata a fermare ciò che è già svanito, scomparso, per riportarlo alla luce e farlo suo, nel proprio inventario o Wunderkammer dell’anima. Stiamo parlando della Gen Z, in preda alla nostalgia di ciò che non ha mai vissuto. Un po’ come nel Settecento si collezionavano vedute di Venezia, o soprammobili dalla Cina, senza esserci mai stati, la Gen Z “abita” il passato come dei turisti un po’ inconsapevoli (vedi tutte le subculture tornate in passerella o nelle serie ma svuotate di senso), ma sempre reinterpretandolo sulla propria pelle. E non solo: preferisce l’imperfezione alla perfezione, soprattutto sui social, optando per una narrazione sincera della vita quotidiana ai feed perfetti ma artefatti di Instagram (quelli fatti con la Reflex e il righello, per intenderci). È una sorta di post-modernismo fatto e finito. E che esprime tutto il gusto di una ricerca che oggi (pare) impossibile: quella di trovare e catturare quel momento unico e autentico. In un mondo che di unico, e di autentico, ha ben poco.