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Nessuno tocchi Asia Argento

La nuova biografia non autorizzata di Anthony Bourdain, le accuse, l’intervista a ‘Domenica In’, i retroscena di una fin troppo chiacchierata storia d’amore e quella lezione che ancora fatichiamo a imparare: parliamo meno degli altri, facciamoci di più i cazzi nostri

Foto: Stephane Cardinale - Corbis/Corbis via Getty Images

Quando penso ad Asia Argento mi viene in mente una massima della mia nonna materna, «la meraviglia s’attacca», che – parafrasata – suona più o meno come «attenzione a sgranare gli occhi e a dire “io quella determinata cosa non la farei mai”, ché poi finisci per farla pure tu». Ma anche, chi di New York Times ferisce, di New York Times perisce: Asia, tra le prime attrici a denunciare le molestie dell’ex super-produttore di Hollywood Harvey Weinstein nel 2017, l’anno successivo viene travolta da un altro scandalo scatenato sempre dal quotidiano statunitense, che la trasforma da vittima in carnefice.

L’esistenza di un accordo economico con Jimmy Bennett, ex bambino prodigio del cinema americano conosciuto sul set di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa – che le avrebbe chiesto 380mila dollari per non rivelare di essere stato aggredito e di aver avuto un rapporto sessuale con lei quando aveva diciassette anni – le costa il posto a X Factor e la espone al pubblico ludibrio, con l’ami-nemica Rose McGowan che la scarica dandole senza troppi giri di parole dell’ipocrita.

Il tutto avveniva a settembre, tre mesi dopo la scomparsa dell’allora compagno di Asia, lo chef Anthony Bourdain, morto suicida l’8 giugno 2018, con un tempismo crudele, infelice e beffardo: da non frequentatrice di X Factor, ammetto con un misto di dispiacere e frustrazione che l’unica volta in cui il talent era riuscito a tenermi incollata alla televisione è stata quando lei era tra i giudici.

Non so se Asia ormai c’abbia fatto il callo, alla curiosità al limite del morboso che da sempre circonda la sua vita e al desiderio malsano del pubblico di giudicare ogni sua singola decisione, ma forse è il destino segnato di coloro che hanno il coraggio d’essere impopolari, schietti e di non compiere scelte per compiacere il prossimo. È di nuovo il New York Times (isn’t it ironic?) a turbare la serenità di Argento, con la pubblicazione di un estratto della biografia non autorizzata di Bourdain firmata dal giornalista Charles Leerhse, Down and Out in Paradise: The Life of Anthony Bourdain.

L’ennesimo libro-spazzatura che si prende la briga di speculare su un suicidio per arricchire case editrici in crisi, e che avanza la teoria secondo la quale sia stato in larga parte il comportamento di Asia Argento a causare la morte di Bourdain. Congettura che già di per sé dovrebbe far dubitare non solo dell’onestà intellettuale dell’autore – uno che non ha nulla di meglio da fare se non entrare in possesso del cellulare di Bourdain (non si sa come) e passare in rassegna le comunicazioni intercorse in quegli ultimi giorni vicino a Strasburgo – ma pure della nostra: davvero amiamo di più questa monnezza di Proust?

L’indignazione con polemica annessa monta in tre, due, uno, corredata da un’intervista chiarificatrice di quaranta minuti di Mara Venier ad Asia Argento durante la puntata di Domenica In di domenica scorsa. Asia si presenta in studio vestita Missoni, radiosa e in forma smagliante, rispondendo a tono alle domande di zia Mara senza cadere nel trappolone della lacrima facile: racconta cose che già sapevamo (la relazione aperta con Bourdain, un monito per i sostenitori del poliamore; la depressione, con lui che «si ostinava a non voler chiedere aiuto»; l’abuso di alcol; il terrore di ledere la propria immagine pubblica) e un po’ ci fa vergognare di noi stessi, sempre pronti a puntare il dito e a voler sindacare su esistenze che non sono la nostra.

Non mi va di riportare lo scambio incriminato di messaggi che, secondo Leerhse, avrebbe spinto Anthony Bourdain a impiccarsi; trovo quasi pornografico il vortice di malignità e insinuazioni che ha investito Asia Argento da una settimana a questa parte, e non posso non rievocare a una situazione molto simile – il suicidio di Kurt Cobain e i fan che ne incolpavano Courtney Love – che nulla c’ha insegnato. «Il suicidio è un fatto troppo privato», dichiarò Gino Paoli in un’intervista a Repubblica il 19 aprile 1994, evitando così qualsiasi domanda in merito a quanto accaduto pochi giorni prima: non disse nulla sulla dipendenza, sulla moglie, sul successo, sul gesto in sé, niente di niente.

Il suicidio è un fatto privato, sì, che ci mette di fronte a un vuoto pieno zeppo di quesiti, rimpianti, rimorsi e recriminazioni, ma che ha soltanto una risposta: il silenzio. Tirare fuori a quattro anni di distanza presunti scheletri nell’armadio e obbligare implicitamente una donna ad andare in televisione per fornire spiegazioni è un atto schifoso che asseconda il nostro bisogno di dare un senso situazioni che non ci competono e che – soprattutto – un senso non ce l’hanno.

Dal milionesimo scandale du jour di cui avremmo volentieri fatto a meno forse impareremo il valore e l’importanza di farci i cazzi nostri e concentrarci sulle nostre personali miserie e piccinerie – il che sarebbe cosa buona e giusta – o magari ci porteremo a casa un’altra massima (non di mia nonna, bensì di zia Mara) sulle relazioni: «Finché dura, fa verdura». Asia era d’accordo e ha riso, e a me basta questo.

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