Sognate una carriera da fashion blogger? Magari no, ma ricevere in regalo abbigliamento griffato e prodotti di bellezza, essere invitati alle feste più esclusive e pagati profumatamente per una foto che vi ritrae mentre indossate delle scarpe alla moda sono tutte cose che potrebbero interessarvi. In Italia questa figura professionale viene comunemente considerata come un mirabile esempio di “imprenditoria di se stessi”. Secondo certe indiscrezioni pare che alcune fashion blogger guadagnino anche 10 mila euro a post e il costo medio di una foto che reclamizza un prodotto varia dai 100 euro per chi ha 10mila follower ai mille euro per chi ne ha 300mila. Per i committenti il giochino apparentemente funziona: ci si appoggia alle fashion blogger con più follower e poco importa che non siano geni di creatività. I grandi numeri inducono riflessi pavloviani a una buona percentuale di marketing manager che operano nelle grandi aziende e tanto basta a giustificare i budget investiti.
Com’è noto Instagram è il canale principe per la veicolazione dei contenuti fashion, ed è leader tra i canali comunicativi di immagini fotografiche. Il problema è che Instagram, insieme a Twitter, è diventato anche il più grande parco giochi di fake e Bot, con la differenza che se su Twitter i Bot cercano di modificare le opinioni degli elettori, su Instagram diventano un amplificatore di vanità e valore mediatico. Il mercato delle fabbriche di like e follower è enorme, e Facebook – che è proprietaria di Instagram – chiude un occhio su questo aspetto perché sa perfettamente che i “giocattolini” gratificano non poco gli utenti nella piattaforma: basta mettere pochi hashtag giusti per vedere i primi “Love” (mi piace) arrivare in pochi secondi. Il mercato nero della compravendita di like e follower di Instagram è arrivato a un livello imbarazzante, potete arrivare a trovare vending machine di like nelle strade di Mosca. È la trovata dei due amici Nazir Yusifov and Ayaz Shabutdinov che assicura like di “qualità” perché dicono provenienti da utenti reali e non Bot.
A questo punto ci siamo chiesti: “Ma le fashion blogger italiane avranno in qualche momento usufruito di questi servizi? Come mai hanno cosi tanti follower rispetto alle colleghe straniere?” Parliamo di cifre che vanno dalla famosissima Chiara Ferragni con 13,9 milioni di seguaci ad altre come Chiara Nasti con 1,6 milioni o Chiara Biasi con 2 milioni. Così, con il nostro team d’agenzia, abbiamo analizzato con tool professionali tutte le reti e le sinergie di alcune tra le fashion blogger italiane più famose, e abbiamo notato delle discrepanze enormi tra quello che il pubblico considera una metrica di successo (KPI), quindi i follower e i like, e il traffico effettivo dei loro siti web, senza parlare delle prestazioni discordanti tra il successo di Instagram e altre reti sociali come Twitter o Facebook dove stranamente non registrano grandi numeri di follower oppure pochissime interazioni, come potete voi stessi vedere da questa infografica interattiva che raccoglie i dati da noi analizzati di una decina di account tra i più importanti (anche se ogni ricerca presenta un ovvio margine di errore, soprattutto in presenza di opacità nell’accesso ai dati, siamo certi della bontà della nostra analisi).
Il grafico qui sotto è interattivo e liberamente navigabile.
Da tempo sappiamo che Instagram è popolatissimo di fake account, che possono essere Bot generati da una sola persona oppure reti di utenti di Paesi del terzo mondo dove si ha un ottimo accesso a internet. Migliaia di ragazzini indiani, pakistani e indonesiani, trovano modo di guadagnare qualche dollaro mettendo like e interagendo su Instragram. La domanda quindi viene spontanea: è questo il pubblico che permetterà l’acquisto del prodotto e la propagazione della brand awareness presso il target adeguato? La risposta è semplice: no. Sapete quanto costa l’acquisto di un milione di follower? Circa 2950 dollari, ma ovviamente avere un milione di follower senza ottenere dei like sulle foto potrebbe destare sospetti; la soluzione è quindi aderire a servizi in abbonamento che assicurano un certo numero di interazioni per ogni pubblicazione in questo modo ci si può sentire in una botte di ferro raggirando anche alcuni tool di analisi come Hypeauditor che basa i suoi dati su algoritmi che studiano 10mila utenti random dell’account in questione, successivamente si divide il numero degli stessi per il numero di like e moltiplicando per il numero di commenti si ottiene un valore che viene considerato “naturale”. Con l’aggiunta di altri parametri più complessi ci si approssima a dati plausibili ma non si scovano tutti i fake.
Ma data la grande attenzione rivolta in questi ultimi tempi al trattamento dei dati da parte dei social, come si sta comportando Instagram? Ebbene, ha fatto di tutto per fermare i sistemi di analisi di molte società, inventandosi metodi ingegnosi per bloccare anche i programmi di scraping: spider che scaricano massivamente i dati e li salvano in file per analizzarli successivamente. Instagram sa perfettamente che far accedere a certe informazioni può essere pericoloso, ed è parte della sua strategia offrire gratificazioni all’utente e alle aziende che si iscrivono. Per questo centellina i dati delle performance, altrimenti tutto quel bel castello di carte che chiamiamo VANITY KPI (metriche di vanità, nulla che porti a una effettiva conversione o a un acquisto di un prodotto o servizio) crollerebbe rovinosamente.
Per rendervela ancora più chiara: immaginate se di colpo scoprissimo che l’auditel ha falsato i dati di ascolto dei programmi TV e che grazie a questo presentatori e starlette avessero incassato assegni milionari; come pensate che reagirebbero gli sponsor scoprendo di aver pagato un programma per una copertura da 3 milioni di telespettatori quando il pubblico effettivo si attestava sui 300 mila? Ecco: c’è chi l’ha capito. Unilever, per esempio. Il 18 giugno scorso la multinazionale da 62 miliardi di dollari di fatturato, proprietaria di brand come AXE, Dove, Fabergé, 1881 Cerruti e Rexona, nella persona del marketing manager Keith Weed, ha dichiarato al festival della pubblicità di Cannes che non accetterranno più influencer che falsificano i numeri dei loro profili. Una vera e propria guerra non solo ai finti influencer ma anche a quelli conosciuti che hanno usato queste tecniche in passato e continuano a farlo per pompare i loro profili che non crescono più come vorrebbero.
Questa dichiarazione di Unilever arriva come una mazzata dopo che l’anno scorso Facebook è stata accusata di falsare i numeri dopo aver dichiarato il raggiungimento dei 100 milioni di utenti dai 18 ai 35 anni di età negli Stati Uniti. Peccato che per l’agenzia Federale di statistica americana le persone dai 18 ai 35 anni siano solo 76 milioni. A questo punto ci sarebbe da capire da dove Facebook abbia tirato fuori quei 25 milioni di utenti americani che non esistono…Sono forse dei Bot?
Questi continui scandali riguardanti la gestione dei dati stanno com’è noto portando le azioni di Facebook su una montagna russa. Per quanto tempo ancora potranno andare avanti falsificando dati senza essere ripresi e regolamentati da leggi europee o americane? Guy Verhofstadt, presidente del gruppo ALDE al Parlamento europeo, ha attaccato duramente Mark Zuckerberg nell’incontro faccia a faccia avvenuto a Bruxelles il 22 maggio scorso. Il video si è viralizzato in pochi instanti in tutto il mondo e vale davvero la pena vederlo.
Ma torniamo al cuore di quest’analisi: come ormai crediamo si sia capito, Instagram lascia agli utenti e agli influencer la possibilità di falsare i numeri, facendo di tutto per non farli scovare, Twitter invece si pone in modo più trasparente e rende più facile l’analisi da parte delle agenzie specializzate. Eccoci arrivare finalmente a come abbiamo analizzato gli account e tratto le nostre conclusioni: prima di tutto abbiamo incrociato i dati della presenza delle fashion blogger sui vari social, quindi, in pratica, se sei famoso su uno andrai bene anche sugli altri giusto? Invece no, succede che questi account continuano a crescere su Instagram e perdono follower o hanno interazioni bassissime dell’ordine di poche decine di like su Facebook e su Twitter. Inoltre abbiamo ottenuto dati sospetti sulla provenienza degli stessi: India, Turchia, Brasile, dati che poi abbiamo confrontato coi nostri software proprietari, più precisi ma anche più lenti nelle analisi. Abbiamo quindi incrociato i dati riguardanti Instagram con il numero di follower e di interazioni sulle pagine di Facebook e Twitter, senza escludere un’ultima analisi del traffico che questi account generano verso i loro blog.
A questo punto ecco la domanda delle cento pistole: come si riconoscono i follower fake da quelli reali e dai mass follower? I mass followers sono di solito account che seguono qualunque altro account anche senza essere seguiti a loro volta. Son tipicamente legati ad applicazioni che poi elargiscono pagamenti dagli 0,1 agli 0,5 centesimi di sollaro per like o follow. Basta vedere i loro profili e capirete immediatamente che non nutrono alcun interesse rispetto ai contenuti fashion. I fake follower invece sono account creati in massa e totalmente automatizzati, se ne possono creare migliaia in poche ore con software che costano sui 500 dollari. Questi tipi di account vengono periodicamente cancellati in piccole percentuali da Instagram in quanto palesemente falsi. Gli influencer invece vengono considerati account con più di 5mila follower anche se sappiamo che è talmente facile ottenerli che non è un dato rilevante per le nostre metriche.
Ma andando più nel profondo nella nostra analisi scopriamo che le fashion blogger italiane non generano tutto il traffico che dovrebbero verso le loro pagine. L’unica che ci riesce a un certo livello è Irene Colzi con Irenecloset, mentre la famosissima Chiara Ferragni con i suoi 13 milioni di follower stupisce per alcune discrepanze: per esempio ha pochissimi follower su Twitter rapportati allo spaventoso numero di seguaci su Instagram. Inoltre, sia su Facebook che su Twitter sta perdendo utenti, quando invece continuano a crescere su Instagram, e ciononostante il traffico alla sua pagina non aumenta. Questo è quanto otteniamo dai dati forniti da uno dei tool di analisi web più noti come SimilarWeb. I dati più sconcertanti arrivano però dagli account di lacoquetteitalienne con solo un 22% di utenti reali, oppure da Nicoletta Reggio con il blog Scent of Obsession con un 33.9% di follower reali. Se poi teniamo conto che le percentuali di pubblico maschile si attesta mediamente dal 50 al 64 per cento potete capire che i numeri vengono ridimensionati tantissimo: la parte femminile proviene spesso da Paesi che non hanno potere acquisitivo adeguato all’acquisto dei prodotti promossi e quindi che cosa rimane del target di riferimento? A voi la risposta.
Continuando a scavare: da che cosa capiamo se c’è stata una qualche adesione al mercato nero dei follower? Una prima evidenza è la perdita improvvisa di follower dovuta al fatto che anche Instragram ogni tanto è costretta a rimuovere qualche rete di fake totalmente generati a tavolino, come nel caso del 18 dicembre 2014 dove la Ferragni perse 130 mila follower in un solo colpo così come molte altre celebrities internazionali.
Concludendo: il mercato dei fake follower opera quasi indisturbato offrendo scariche di dopamina a chiunque decida di farne uso. Quando questi servizi si acquistano massivamente con l’intenzione di dare il via a una carriera da fashion blogger, con una buona strategia si riescono a passare gli audit senza grossi problemi iniziando così a guadagnare. Certo, per chi lo fa non è un brutto affare, ma le aziende che cosa ne pensano?
Domanda rivolta a voi lettori: avendo noi la disponibilità tecnologica e la possibilità per farlo in poche settimane, non è arrivato il momento di creare una piattaforma che collegandosi agli account degli influencer, con il loro benestare, permetta di certificare la qualità con dati attendibili? Pensate che le fashion blogger accetterebbero questa sfida?