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‘A casa tutti bene’: bello con l’anima (pure troppa)

Gabriele Muccino mette in questo lungometraggio tutto il suo cinema e lo eleva alla massima potenza. E ci ricorda che solo lui può fare film così.
4 / 5

Lo sguardo perso di Massimo Ghini. Gianmarco Tognazzi al piano. Valeria Solarino che dice “è stupida”. Ivano Marescotti che fa una battuta che sembra pensata da Monicelli e Scola. Sabrina Impacciatore – in un altro cinema sarebbe Monica Vitti, qui trova pochi autori capaci di valorizzarla – che canta Jovanotti.

E ancora il cinismo di Giampaolo Morelli – il nuovo Di Caprio: Ammore e Malavita prende 15 candidature al David, ma lui (e Serena Rossi) no, come successe a Leo con Titanic – o gli sguardi rabbiosi e innamorati di Giulia Michelini. Il nuovo film di Gabriele Muccino, l’essenza profonda di una poetica da sempre urticante e irresistibile per lo spettatore – che durante il film si immedesima e dopo nega, perché riconoscersi in quel fango emotivo è dura – li cogli nei dettagli.

Non nelle urla, nelle lacrime, nelle corse che a un certo punto esplodono dentro quella villa splendida, dentro quell’isola (Ischia) che sembra costantemente riservare sorprese. Quei topoi mucciniani arrivano, eccome, tutti insieme, ti inchiodano e spiazzano, come succede a una perfetta Stefania Sandrelli, disorientata da ciò che conosce bene ma spesso finge di ignorare o peggio di aver vissuto in prima persona, come molte madri della cinematografia mucciniana.

Più La famiglia di Scola che Parenti serpenti di Monicelli – con quella tensione thriller e momenti quasi da commedia nera che ci portano a pensare, nei momenti più strani, anche a Ferie d’agosto di Virzì e L’ultimo capodanno di Marco Risi -, A casa tutti bene è, per citare una battuta del critico di Radio24 Franco Dassisti, il C’eravamo tanto baciati di Gabriele Muccino.

Laddove Baciami ancora era risultato forzato, questa riunione di famiglia per le nozze d’oro dei genitori – o nonni, zii, suoceri, sorelle, a seconda degli invitati -, che ecumenicamente mettono tra gli invitati anche pecore nere ed ex, diventa il luna park perfetto per il talento di uno dei nostri registi più bravi. E anche per lo spettatore che lo apprezza. Basta un soggetto indovinato, che si basa sul mare mosso e su traghetti che non partono, per dare al cineasta un’isola meravigliosa che diventa prigione per una comunità che da sempre si regge su falsi e ipocriti equilibri, sentimenti contraddittori, giudizi repressi e vite depresse. In una parola, famiglia.

Perché la famiglia è il luogo da cui fuggi e ritorni – come introduce uno Stefano Accorsi, ottimo Peter Pan -, l’orrore e il rifugio, il dolore e l’intimità, il luogo dove più fingi e più sei vero. Quello che i veri romantici cercano nonostante sappiano che falliranno, come scherza Pierfrancesco Favino, eccellente in un marito, ed ex, fragile e compresso. Contraddizione pulsante ed eterna.

Muccino non offre alibi perché non attribuisce colpe: se è vero che gli uomini sono visti, forse, con maggiore accondiscendenza e le donne disegnate con qualche colore troppo forte, a volte al limite di una misoginia da palestra, è vero che qui il coraggio, lo sguardo femminile sono più potenti e la parte tragicomica rimane tutta incollata all’inadeguatezza dei maschi.

L’unità di luogo – l’isola, e in gran parte la villa – permette al regista di costruire un’ariosa claustrofobia emotiva e visiva, una sensazione di pericolo che si appoggia su tutte le emozioni: sull’infantile ritorno al passato Cucci-Accorsi, sul triangolo esplosivo Solarino-Favino-Crescentini (la crudele, lucida pazzia di quest’ultima ti attanaglia lo stomaco), persino sulla coppia Impacciatore-Morelli, che gioca in sottrazione e ti dà l’impressione di rimanere solida franando. Bugie, non detti, rabbia cementano un nucleo che sembra trovare unione solo attorno a un piano, o al cibo.

Ed è lì che il film fa sentire la sua forza, nei dettagli, negli sguardi, in poche parole che ricordi di aver sentito qualche minuto dopo ed è così che Muccino sa tenere le fila di un film impossibile, di un superFesten all’italiana che risulterebbe ridondante in mano a chiunque altro. Perché dà spazio a tutti, lasciando ai protagonisti tanti oneri per portare avanti la storia (bravissimi Favino, Accorsi, Impacciatore e nel suo modo unico e lieve Stefania Sandrelli anche nel trainare l’opera), lasciando ai comprimari momenti straordinari.

Il monologo rabbioso della Michelini, un Ghini malato d’Alzheimer da David, la Gerini che sbotta d’amore e rabbia, Tognazzi che dipinge un ultimo da antologia, Valeria Solarino che è capace con poche pennellate di farti capire tutto. È un puzzle, un affresco A casa tutti bene, che ci inchioda a una vita precaria, a quei genitori ingombranti che hanno avuto successo, soldi, amore mentre tu ti lasci, tradisci e fallisci, cullato e ricattato dal loro affetto, dal loro orgoglio.

È un film su quel maledetto cordone ombelicale con cui una generazione eternamente figlia rischia di impiccarsi, di un’immaturità che è un rifugio, di fughe dalla realtà, di schemi vecchi per sentimenti nuovi. E se la sceneggiatura (di cui il regista è coautore con Paolo Costella) in alcuni momenti non brilla – ottima nella struttura, non sempre centrata nei dialoghi, in cui l’enfasi mucciniana in alcuni casi esonda -, a prenderti per il collo, nel film, è la fotografia di Shane Hurlbut e inevitabilmente il montaggio di Claudio Di Mauro che incorniciano le qualità tecniche e artistiche della visione del loro autore, capace come nessuno di riempire di senso e di sentimento spazi, visi, scorci, tempi.

Tanto che si perdona anche la sovrabbondanza di un altro topos del buon Gabriele, l’invadenza della musica che, pur essendo del divino Piovani, poteva trovare minore e migliore spazio, perché se hai quella capacità registica di eccitare spettatori e attori, di portarli a essere travolti dalla tua narrazione visiva, non hai bisogno di riempire i vuoti, ma di crearne qualcuno.

Ma è in fondo anche questo che rende Gabriele Muccino uno degli ultimi registi classici tra quelli moderni e che erroneamente a qualcuno ha fatto parlare di film “vecchio”. Vecchio nel senso di ambizioso: nel cast, nel racconto, nella regia. La verità è che certe storie, certe dinamiche, certi caratteri (e caratteristi) possono esistere solo in mano a lui, che ha ancora il coraggio e quasi l’incoscienza di sfidare un certo paraculissimo cineminimalismo d’autore.

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