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Alice Cooper, ‘Detroit Stories’ e l’arte di non prendersi troppo sul serio

L'album dello shock rocker è una lettera d’amore alla Motor City e la dimostrazione che si può fare musica senza pretese artistiche, né messaggi edificanti. Con lui c'è un pezzo di nobiltà rock della città
3 / 5

Se Alice Cooper continua a piacere, e la stessa cosa non può essere detta di molti colleghi che le radio passavano negli anni ’70, è perché ha sempre rifiutato di considerare il rock una forma d’arte seria. School’s Out non è che un cugino lontano di School Days di Chuck Berry, mentre I’m Eighteen è divertente da quando Cooper aveva 23 anni, e non ha mai smesso di cantarla. Ecco perché i suoi dischi anni ’70 come Love It to Death e Killer erano grandiosi. Potevi coglierne o non coglierne il lato ironico, sicuramente percepivi l’esistenza di una connessione genuina con il sound crudo di Detroit. Mezzo secolo più tardi quello spirito rock è ancora presente nella musica di Cooper e il suo senso dello spettacolo è il motivo per cui così tante persone riempiono le sale per vederlo. È lo stesso motivo che rende i suoi dischi divertenti da ascoltare: non sai mai cosa potrebbe succedere.

Non è una sorpresa, quindi, che le canzoni migliori di Detroit Stories, il suo 21esimo album solista, siano anche le più divertenti. Our Love Will Change the World è una cover disinvolta di un gruppo power pop del Michigan, gli Outrageous Cherry, ma nelle mani di Cooper suona come la Partridge Family che si è fatta di polvere d’angelo, con tanto di schiocchi delle dita, in cui il cantante descrive la sua utopia come se fosse un incubo distopico. “Il mondo potrebbe non piacerti adesso”, canta ghignando, “ma ti abituerai”. Go Man Go è un attacco alla mascolinità tossica basato su un riff in stile Replacements (scritto insieme a Wayne Kramer degli MC5) in cui Cooper canta che “la mia ragazza sa che sono un uomo”, a cui segue subito un “sa che sono uno stronzo, ma va bene così”. La sua Wonderful World non ha niente a che vedere con gli alberi in fiore e le rose rosse di Louis Armstrong, preferisce dire “sarebbe un mondo bellissimo se tutti fossero come me”.

Poi c’è I Hate You, in cui Cooper e i membri rimasti in vita della sua band originale si prendono in giro, ammettendo collettivamente che odiano il chitarrista Glen Buxton, morto 24 anni fa, perché ha avuto il coraggio di non farsi più vivo. Nel rock allegro di Shut Up and Rock, Cooper se la prende con gli artisti che si prendono troppo sul serio. “Non voglio sentire le vostre opinioni politiche”, dice a un certo punto, “non voglio sapere del vostro doloroso passato, non mi interessa”. Il messaggio è, ovviamente, “state zitti e fate rock” (alla batteria c’è Larry Mullen Jr. degli U2, forse come atto di protesta ironica).

Quando canta l’omaggio alla sua città natale Don’t Forget the Motor City sembra fare l’occhiolino truccato di mascara nero. Nella cover di Rock ’n’ Roll dei Velvet Underground cambia il nome delle stazioni radio di New York del testo con quelle di Detroit e gioca, in perfetto stile Alice Cooper, sulla macabra fantasia di “ballare nonostante le amputazioni”. Poi, in Detroit City 2021, nomina tutta la nobiltà rock di Detroit – Iggy, Nugent, Suzi Quatro – e tira dentro anche Eminem e gli Insane Clown Posse. Infine, propone con una certa riverenza due cover: Sister Annie degli MC5 e East Side Story di Bob Seeger.

Non sempre l’umorismo funziona – $1,000 High Heel Shoes, che buttare via tutti i risparmi con una stripper, e Drunk and in Love, sui senzatetto romantici, suonano un po’ fuori luogo. E l’unica canzone seria del disco, Hanging On by a Thread (Don’t Give Up), sulla prevenzione dei suicidi, sembra quasi nascosta, troppo avanti nella scaletta.

Nel complesso, però, sembra che Cooper e lo storico produttore Bob Ezrin sappiano benissimo cosa si può fare in un disco di Alice Cooper, e quando trovano il tono giusto ci si diverte un casino. Anche il divertimento può essere una forma d’arte.

Questo articolo è stato tradotto da Rolling Stone US.

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