Nel 2002 Richard Morgan ha pubblicato Bay City, il suo primo romanzo, che racconta la storia di Takeshi Kovacs, cyber-guerrigliero dal piglio maledetto e dallo spirito libero. L’anno successivo, Joel Silver, storico produttore di Matrix, ne acquisisce i diritti cinematografici per un pacco di milioni, ma non se ne fa niente. Nel 2016 Netflix rileva l’opzione con l’idea di realizzare una serie televisiva che debutta in video il 2 febbraio scorso.
Così vede la luce Altered Carbon, sci-fi poliziesco tra i più attesi di questa stagione, dieci episodi piuttosto scorrevoli nonostante le innumerevoli varianti che l’intricata sceneggiatura propone di volta in volta. Il pretesto narrativo è un omicidio, che si compie nell’anno 2348, sul quale viene chiamato a indagare un pregiudicato rivoluzionario, condannato all’oblio a vita, più di due secoli prima, per essersi opposto al potere esercitato da un’ élite che governa un mondo suddiviso in classi sociali, dove l’abbiente è stato reso quasi immortale dal progresso scientifico, mentre per chi vive ai margini, come spesso accade, il destino è segnato.
La straordinaria e costosa ambientazione decadente e noir riporta la mente a Strange Days e descrive una città piovosa e inquietante, ripresa velatamente dai racconti di Philip K. Dick. La sceneggiatura è il vero valore aggiunto dell’intera opera, un thriller fantascientifico che poggia su una trama piuttosto complessa e intrigante che rende la serie affascinante e godibile, anche se la scelta di affidarsi a più registi non paga sempre. Alcuni episodi risultano infatti essere più deboli di altri, ma nel complesso la visione ne risente solo superficialmente.
La storia si sviluppa a Bay city, la nuova San Francisco, megalopoli hard-boiled soggiogata dalla prostituzione e dal vizio, violenta e criminale, dove la morte definitiva dipende dalla distruzione di un supporto digitale e di una pila corticale contenuta alla base del cranio, non da quella organica, visto che il corpo, chiamato custodia, non è nient’altro che un involucro intercambiabile, che può essere naturale, ereditato da altre persone decedute, o sintentico, prodotto quindi in laboratorio.
Molteplici sono le chiavi di lettura di questa produzione Netflix, dal sogno dell’immortalità, all’iniquità di una società malata, al ruolo sempre più marginale dell’essere vivente rispetto all’intelligenza artificiale, ma è soprattutto l’umana debolezza e il suo modo di relazionarsi con i sentimenti più antichi -amore, gelosia, rabbia – a lasciare il segno più grande. L’attore svedese Joel Kinnaman è molto bravo a dare vita al personaggio principale e voce narrante Takeshi Kovacs, un Dylan Dog biondo, schivo, charmant, cinico e depresso, che riesce a conquistare sul campo le stigmate del Philip Marlowe del 24esimo secolo. Al suo fianco la straripante nepalese Dichen Lachman, sensuale e decisa nella parte antagonista, sanguinaria quanto basta. Nelle riprese esterne i colori si addensano in una fotografia che stimola l’esigenza del vagare randagio attraverso le luci e i bordelli della città, o sopra il Golden Gate, ormai rifugio di derelitti e indigenti, mentre gli interni assumono un ruolo fondamentale nella rappresentazione della realtà virtuale, assolutamente claustrofobica, che spesso tende a confondersi con il reale.
La fantascienza si definisce anche “narrativa d’anticipazione”, perché tende a immaginare futuri scenari sociali, politici ed economici, ma l’ambizione di Altered Carbon è quella di prevedere anche stati d’animo futuri, tentando un lavoro di introspezione, di esegesi spirituale, compito svolto senza il tedio dell’inutile analisi psicologica tanto cara a molti registi contemporanei. Non si tratta di un capolavoro, non è Blade Runner, ma la curiosità stimolata nell’audience da un finale in crescendo lascia presagire una seconda stagione che potrebbe eliminare le piccole pecche che si sono percepite nella prima.