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‘Athena’ non inneggia alla rivolta: è una rivolta (di stile e di racconto)

In concorso a Venezia 79 e ora su Netflix, il film di Romain Gavras è una storia incendiaria di banlieue che usa grandi trucchi di regia (i virtuosistici piani sequenza) per lanciare un messaggio forte e coerente
3.5 / 5

È sempre una tentazione forte mitizzare i piani sequenza. Capire se ci sono delle cuciture invisibili, chiedersi quante volte sono stati provati prima di girarne la versione definitiva, soffermarsi sulla coreografia studiata per tenere insieme l’azione. Alcuni sono bellissimi, altri realizzati per mera ostentazione, altri ancora dei virtuosismi veri e propri. Ma la domanda più pertinente non è tanto “Come l’hanno fatto?”, bensì “Perché l’hanno fatto?”.

Non ci si pone però questa seconda domanda dopo aver assistito al piano sequenza che apre Athena di Romain Gavras (disponibile in streaming su Netflix). Il volto di un soldato francese occupa tutta l’inquadratura mentre posa davanti ai giornalisti raccolti per una conferenza stampa. Il suo nome è Abdel (Dali Benssalah), ed è in piedi accanto al capo della polizia quando si mette a parlare dell’ennesimo atto di violenza perpetrato dagli agenti contro persone di diverse etnie nella banlieue parigina nota appunto come Athena. La differenza è che Imir, il tredicenne ucciso dalle forze dell’ordine, era il fratello minore di Abdel, nonché il più piccolo dei quattro figli della sua famiglia. Abdel invita i presenti a restare calmi quando parte una protesta spontanea. È chiaramente scosso, ma trattiene dentro tutto il dolore. Abdel non è davanti alla folla per piangere il suo caro. Si trova lì come rappresentante dello Stato.

Mentre parla, la macchina da presa inizia a spostarsi dal suo volto, si muove sopra le teste dei giornalisti e a poco a poco procede verso un altro viso: quello di Karim (la rivelazione Sami Slimane), anche lui fratello della vittima. La macchina da presa scende ancora un po’ e vediamo che nelle sue mani regge una Molotov. La accende, e in un attimo scoppia il pandemonio. Karim e gli altri “ateniesi” mettono a ferro e fuoco gli edifici. Aprono un armadietto pieno di pistole e occupano un furgone della polizia. Si mettono alla guida del van e, mentre sfrecciano lungo la strada, un ragazzo sventola una bandiera francese dal finestrino di un’auto che passa loro accanto. L’esercito dei guerriglieri si chiude nel suo fortino di periferia e si mette ad aspettare il nemico alle porte. Dodici minuti e… cut!

Ci sono tanti altri piani sequenza nel corso dell’ultimo film-bomba di Gavras, alcuni dei quali si concentrano sull’altro fratello di Abdel e Karim – Moktar (Ouassini Embarek), il boss della droga di Athena – e altri invece dedicati al poliziotto novellino (Anthony Bajon) coinvolto nella lotta. Ma il primo piano sequenza è la chiave per comprendere tutto ciò che il regista franco-greco, figlio dell’ugualmente incendiario Costa-Gavras, vuole raggiungere. È uno sforzo spettacolare, senza dubbio. Ma, cosa più importante, ti fa immergere da subito nell’azione, ti dà un incredibile senso dei luoghi in cui il racconto è ambientato e, essendo girato in tempo reale, ti fa capire come bastino davvero pochi secondi per passare da una situazione di apparente normalità a un vero e proprio inferno. Un collega l’ha definito “un Mad Max: Fury Road della banlieue”, e il paragone regge perfettamente. Athena non vuole ispirare un’insurrezione. È esso stesso un’insurrezione.

Gavras ha dichiarato che per lui questa è più una tragedia greca che un dramma di periferia, il che dà alla sua storia un respiro senza tempo. Come a dire: la brutalità della polizia, l’abuso di potere e la violenza contro cittadini non bianchi non sono fenomeni moderni. Il regista e i suoi co-sceneggiatori Elias Belkeddar e Ladj Ly (il cui film I miserabili, del 2019, dipingeva uno scenario molto simile, ma dal punto di vista dei poliziotti) vogliono veicolare l’idea che il seme della violenza che cresce nei due fratelli protagonisti è stato piantato molto tempo prima.

Dali Benssalah è Abdel. Foto: Netflix

Athena era la dea della guerra; ma era pure la dea della saggezza, e anche se la richiesta di Karim ai poliziotti di conoscere i nomi degli assassini di Imir viene assecondata, sappiamo fin dal principio che giustizia non sarà realmente fatta. Karim è pronto per combattere il potere costituito, Moktar vuole proteggere i suoi traffici, Abdel vuole mantenere lo status quo se non raggiungere una sorta di pace. Ma sono tutti impotenti di fronte al destino. Devono tutti giocare la propria parte in questa partita finale, mentre il suono della furia cresce (anche letteralmente: menzione per il compositore e producer Surkin, che firma la colonna sonora). Se questi cittadini francesi costretti ai margini della società non possono ottenere égalité e fraternité, possono puntare almeno alla liberté, e a un momento di presunta gloria.

Se conoscete il nome di Romain Gavras al di fuori del circuito cinematografico, è probabilmente per via del videoclip di Stress dei Justice, una sorta di reboot da incubo di Arancia meccanica. Il suo primo lungometraggio, Our Day Will Come (2010, disponibile su Prime Video), era invece una sorta di estensione dell’universo che aveva immaginato per il video di Born Free di M.I.A. E l’opera seconda, Il mondo è tuo (2018, sempre su Netflix), un dramma criminale che ne confermava lo stile ormai inconfondibile. Gavras non si è mai tirato indietro di fronte ai temi controversi, ma è stato anche facilmente catalogato come regista “hipster”, uno più interessato alle prodezze tecniche che ai contenuti.

Athena è la confutazione di questa tesi. È un film che ha tutti i trucchi stilistici sovraccarichi di Gavras, ma che al contempo vuole lanciare un messaggio di grande coerenza, anche se alcuni elementi possono essere facile e spinosa materia di dibattito. Ma è anche un’opera visionaria, esperienziale, sconvolgente, capace di rinnovare la fiducia in persone che credono ancora nel potere della macchina da presa e del racconto cinematografico.

Da Rolling Stone USA

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