A un certo punto di Away, il dramma sci-fi di Netflix sulla prima missione su Marte, il comandante della NASA Emma Green (Hilary Swank) chiede a Yu (Vivian Wu), la scienziato-capo del suo shuttle, come vive la lontananza dai suoi affetti più cari. Yu, consapevole di quanto Emma stia soffrendo per la separazione dalla sua famiglia, ammette che il suo cuore si spezzerebbe, se pensasse a cosa vuol dire davvero passare tre anni lontana da suo figlio. «Ma saremo i primi esseri umani a mettere piede su Marte», aggiunge. «Io cerco di vederla così. È lei che sta guardando tutto nella direzione sbagliata, comandante».
Nel corso dei dieci episodi della prima stagione, Emma e Yu sono rappresentate come due poli opposti: Emma, spesso distratta dalle questioni che coinvolgono il marito ingegnere aerospaziale Matt (Josh Charles) e la figlia adolescente Alexis (Talitha Eliana Bateman), è quello emotivo; mentre Yu è quello distaccato e professionale, a volte pure troppo. Away cercare di porsi a metà strada tra i due poli, mantenendo la storia in equilibrio tra la missione in corso e le molte crisi che esplodono con Matt, Alexis, e tutti gli altri lasciati sulla Terra. Troppo spesso pare che la serie guardi nella direzione sbagliata, proprio come la sua protagonista. Le scene nello spazio, per quanto assai familiari (*), sono trascinanti, divertenti, spesso commoventi, mentre il dramma “terrestre” ci ricorda che esiste la forza di gravità, proprio mentre stiamo godendo della meraviglia del vagare tra le stelle.
(*) Away è la seconda serie sulla prima missione dell’uomo su Marte, e anche il secondo dramma sci-fi con protagonista un attore due volte premio Oscar nei panni del genitore di una figlia adolescente ribelle. The First con Sean Penn è stata un fallimento pressoché totale, nonostante la missione vera e propria cominciasse solo alla fine della prima stagione, che poi non ha avuto seguito. Away comincia invece con l’equipaggio di Emma sulla Luna, ultima tappa prima del volo verso il Pianeta Rosso. Per come vanno le cose, immagino che tra un paio d’anni Amazon lancerà la sua versione, magari con Frances McDormand e Mahershala Ali già sbarcati su Marte.
È facile capire perché la serie – creata da Andrew Hinderaker e prodotta da Jessica Goldberg, insieme a nomi importanti come il “boss” di Friday Night Lights e Parenthood Jason Katims, Matt Reeves e Edward Zwick (anche regista del primo episodio) – abbia deciso di dividere il racconto tra, per così dire, casa e spazio. Non è solo perché le scene in orbita sono più difficili e costose da girare, tanto che gli effetti visivi sono convincenti solo di tanto in tanto: vedi la scena in cui il veterano Misha (Mark Ivanir) russa sfidando la gravità nella sala comune dello shuttle. È perché le sequenze casalinghe dovrebbero teoricamente dare un po’ di respiro a una narrazione che rischierebbe altrimenti di essere monotona (la routine dei viaggi spaziali è sempre quella), oltre a creare un coinvolgimento emotivo maggiore nei confronti delle vite dei personaggi. Ma le scene che vedono al centro Matt e/o Alexis sono terribilmente noiose e scontate come quelle ambientate nello spazio, ma con la differenza che: be’, non sono nemmeno nello spazio. A Houston sono rimaste parecchie situazioni complicate da gestire, tra operazioni in ospedale e il comportamento sempre più indisciplinato di Alexis, che risponde così alla prolungata assenza della madre. Ma anche qui è semplice routine, fatta di momenti privi di vita che fanno l’effetto opposto di quello voluto: di Emma, ampiamente definita attraverso le relazioni che ha con il marito e la figlia, t’importa sapere ancora meno, invece che scoprirla di più. (Josh Charles e Talitha Eliana Bateman fanno del loro meglio, ma purtroppo non basta.)
Anche nello spazio, Emma soffre della “Sindrome della Protagonista”. A Swank è richiesto di essere l’americana stoica che guarda sempre avanti, mentre i volti del suo variegatissimo equipaggio – inclusi anche Ray Panthaki, alias l’empatico medico di bordo Ram, e Ato Essandoh, nel ruolo del novellino botanico anglo-ghanese (ed ebreo) Kwesi – rivelano tutti dinamiche molto più complesse e interessanti. Hanno persino il senso dell’umorismo, cosa che invece alla rigidissima Emma manca completamente: mentre i suoi colleghi commentano l’ennesimo problema con una battuta scherzosa, Emma domanda «Cosa c’è di tanto divertente sulla morte?». La commedia non è il registro in cui Swank si trova maggiormente a proprio agio, ma l’ironia è una caratteristica che i piloti aerospaziali dovrebbero possedere, soprattutto quelli abbastanza brillanti da guidare una missione su Marte. Emma invece deve restare sempre ammirevole e focalizzata sull’obiettivo, ma finisce per sembrare più robotica della pur freddissima Yu.
Mentre vediamo un po’ della parabola di Misha e delle altre famiglie nel tempo presente, scopriamo la vita di quasi tutti gli altri membri della navicella attraverso flashback in stile Lost, alcuni recenti, altri lontanissimi: vedi la malattia a cui Ram è sopravvissuto quand’era un ragazzino. È un modo intelligente per interrompere le sequenze dedicate alla missione, e per approfondire gli altri personaggi, che ci sembrano sempre più degni di interesse di Emma. In particolare, tutte le volte che lo sguardo su sposta su Yu e su tutti i fardelli che porta sulle spalle in quanto donna di origine cinese, è difficile non pensare che avremmo preferito lei come figura centrale della serie.
Wu e tutti gli altri attori rivelano una grande energia, e permettono ad Away di trovare una sua compattezza proprio perché paradossalmente sa focalizzarsi sui singoli dettagli. Come accade con The Crown, Away permette un approccio diverso dal classico binge-watching alla Netflix: ti viene voglia di aspettare un po’ prima di vedere un nuovo episodio. A volte le vite degli astronauti sono in pericolo, altre volte può accadere qualcosa di apparentemente più insignificante, come quando Kwesi cerca di capire se potrà piantare qualcosa sul suolo di Marte. Ma c’è sempre un problema da risolvere e non senza una certa ingenuità, del nastro adesivo e una punta di quella che Tom Wolfe, riferendosi agli astronauti del Mercury 7, chiamava “la Cosa Giusta”.
Prossimamente arriverà anche la comedy di Showtime Moonbase 8, con John C. Reilly e Fred Armisen. Insieme ad Away, si aggiunge all’affollato panorama di titoli di cui fanno parte anche For All Mankind (Apple TV+) e Space Force (Netflix). Io resto un fan di tutto ciò che sia anche solo vagamente collegato alla NASA, ma anche dei family drama sfumati e strappalacrime alla Parenthood. Può darsi che Away faccia entrambe le cose solo a metà, ma le fa comunque piuttosto bene.