Natasha Romanoff, a.k.a. la Vedova Nera, bazzica il Marvel Cinematic Universe dal 2010, spesso come presenza memorabile, ma mai come star assoluta. La sua prima apparizione è stata in Iron Man 2: il film di qualcun altro. Per un motivo o per l’altro, nonostante sia interpretata da Scarlett Johansson, persino Ant-Man l’ha preceduta, in quanto a film in solitaria. E non uno: ben due. Il che non è una cosa di cui lamentarsi: sono buoni film, due detour intelligenti e divertenti, una boccata di sano nonsense in mezzo al mondo catastrofico e rumoroso delle avventure “di gruppo”.
Ma Johansson si meritava più di questo, anche se il personaggio della Vedova Nera, per come è scritto, ha sempre fatto più l’effetto di una figura di contorno, amplificata dalla statura della star che ne veste i panni e da alcuni snodi narrativi ed emotivi ben piazzati: i traumi avuti, da bambina, a causa del programma supersegreto che l’ha resa quello che è; e qualche doloroso momento insieme a Hulk (roba per fan di un personaggio che, all’interno del franchise, non sembrava invece importare granché). Natasha è un’assassina russa addestrata in una scuola di combattimento corpo a corpo. Non sa rimpicciolirsi come Ant-Man o diventare una bestia alla Hulk; non è un genio ricchissimo come Tony Stark o un outcast biologicamente alterato come Spider-Man, Scarlet Witch, Captain America e moltissimi altri. È, semplicemente, una spia con un passato oscuro alle spalle. E sottolineiamo: passato oscuro.
Black Widow, il nuovo film del MCU diretto da Cate Shortland, è un’elaborazione di quei pochi frammenti che avevamo già a disposizione su Natasha Romanoff, e prova a rendere quei frammenti meritevoli di due ore di visione. Tutto ha inizio nel 1995, in Ohio, quando la protagonista è una bambina che vive con la sua famiglia: ma, a questo proposito, ci sarebbero troppe cose da spoilerare. Basta dire che c’è dietro un inganno e che i suoi genitori, Alexei (David Harbour) e Melina (Rachel Weisz), non sono i suoi veri genitori, né la sua sorellina è davvero sua sorella. Cose di spie. Dunque: una famiglia in fuga; una famiglia che non è una vera famiglia; americani del Midwest che sono, in realtà, dei russi con intenzioni misteriose.
Siamo trasportati in fretta al tempo presente – l’azione, nella timeline del MCU, avviene dopo i fatti raccontati in Captain America: Civil War – e quello che ci aspetta è un intricato complotto che ha a che fare con un “soggiogamento chimico”, uno sguardo più attento sul programma Black Widow e soprattutto su colui che lo gestisce, il generale Dreykov (Ray Winstone), e su – che poi è la cosa migliore di tutte – Florence Pugh. È uno strano film, Black Widow: sequenze action di prim’ordine, scrittura vivace, intrattenimento intelligente, ma poi – come se il film stesso fosse una di quelle “vedove” soggiogate da una forza più potente – tutto deraglia di fronte a una mera esposizione che rende tutto più ovvio e scontato, invece di andare in profondità come avrebbe potuto.
Sapevamo già, da una spiegazione della stessa Natasha in Age of Ultron, che quel misterioso programma le aveva fatto fare cose inimmaginabili, quand’era bambina (tra queste, un’isterectomia forzata). Black Widow prende questo spunto e pochi altri – la finta famiglia, il nazionalismo tinto di nuance in stile Guerra Fredda, lo spionaggio che trasforma bambini in assassini – e li tratta tutti come fossero una semplice backstory; nessuno di questi dettagli, al di là del vago trauma infantile, sembra avere un peso reale in questa storia. Sembra la solita, vecchia origin story; una storia che, per fortuna, non vuole connettersi troppo a tutto il MCU che ha attorno, ma che sembra navigare solo sulla sua stessa superficie.
Non costituisce spoiler dire che al cuore della trama c’è, essenzialmente, un’operazione di traffico di bambini, il che era già implicito a quello che sapevamo sulla nostra eroina, ma che sembra anche il solito cliché, quando si parla di sovietici. Ma è tutto senza emozione. Queste Vedove Nere, come vengono chiamate le assassini, ne sono totalmente prive. Finché non diventano il contrario. Sono del tutto anonime, sono – per usare le parole di Dreykov – “spazzatura” e – per usare invece quelle di Pugh, alias Yelena Belova – “armi senza volto”. Finché appunto, di colpo, non diventano delle Avengers: o, quantomeno, delle aspiranti sorelline degli Avengers.
Il film piazza uno stereotipo da spy movie dietro l’altro, dal continuo passare da un luogo all’altro caro al genere (Cuba, Morocco, Norway, Budapest… Ohio) a una fuga da una prigione in mezzo alla neve, fino alle corse sui tetti e persino a una citazione dello stesso James Bond (Natasha guarda un suo film sul computer). Sono dei puri e semplici ammiccamenti: nessuno di essi è davvero interessante, a meno che non lo sia mai visto in precedenza (ed è impossibile); e il film, in ogni caso, non sfrutta tutto quell’immaginario in modo originale. Il piacere, come spesso accade coi titoli Marvel, sta nel ritrovare quello che conosci già: quella sensazione di “so dove il film sta andando a parare”, “ho in mente questo riferimento”, “ho capito questa battuta”. Ok, l’abbiamo capita: e allora?
Dobbiamo riconoscere a Johansson e Pugh il merito, quantomeno, di provare a dimostrare che la loro dinamica da sorelle-poi-amiche regge da sola due ore di film. Pugh, in particolare, è magnifica, quando il film le permette di esserlo: cioè quando prende in giro quell’iconografia supereroistica ormai è un po’ stantia. In alcuni momenti – mentre l’azione va avanti meccanicamente: ci sono solo persone che fanno cose, e combattimenti con pistole che diventano combattimenti con pugnali che diventano combattimenti in cui uno cerca di strozzare l’altro con una tenda – sembra che il vero film stia altrove. Che non sia solo il mettere in scena Johansson e soci che se le danno a vicenda. Mi piacerebbe vederlo, quell’altro film. Ma non sono sicuro che la Marvel lo farà mai.