Anche i più snob fra i miei amici, quarantenni o giù di lì, sono fan di Damon Albarn, pure quelli cui dà fastidio la parola fan. Già si erano schierati durante “la guerra fredda del pop anni ’90”, la rivalità Oasis/ Blur: una contrapposizione quasi ideologica – la working class del Nord inglese contro la middle classe arty del Sud – che poi, nelle discussioni da pub, finiva “a cazzo”, tipo la canzone di Gaber, dove fare il bagno nella vasca era di destra e far la doccia invece di sinistra.
I Blur erano l’amore e gli Oasis la scopata e, nelle sbronze, i primi il singhiozzo, i secondi il rutto. Cose così, che oggi ascoltando The Magic Whip dei Blur – a 16 anni di distanza da 13, ultimo album della band nella formazione originale a quattro – fanno un po’ malinconia. Perché queste due band “non solo parteciparono alla festa” di rinascita del pop rock (l’allora brit pop) ma, sciogliendosi, “ebbero il potere di farla fallire”.
E proprio un’altra wikiquote del Jep Gambardella de La grande bellezza viene a mente ascoltando un disco dalla doppia personalità, da un lato quella “adulta” del Damon post Everyday Robots (il disco solista dell’anno scorso) e dall’altro quella back to the roots dei Blur di Parklife e The Great Escape (non a caso il produttore è Stephen Street, quello dei primi album): «È così triste essere bravi, si rischia di diventare abili».
Già, perché se The Magic Whip è il risultato di una pausa di cinque giorni nel 2013 a Hong Kong durante il tour di reunion («Era stato cancellato il Tokyo Rocks Festival, avevamo dei giorni liberi e abbiamo deciso di farne qualcosa», ha detto il chitarrista Graham Coxon), l’influenza del leader è pressoché totale. Dei 12 pezzi dell’album, più della metà sembrano bonus tracks di quel maturo e soft Everyday Robots di cui si diceva prima, solo resi più chitarrosi dalla mano di Coxon: canzoni come New World Towers, My Terracotta Heart e There Are Too Many of Us non sono pezzi dei Blur, ma di Damon. E non è una sfumatura, neppure è il dark side della band, ma un saggio di abilità pop che poco ha a che fare col resto del disco, la parte migliore, quella più attesa, dove i Blur fanno i Blur.
Basta ascoltare Go Out: qui la voce del cantante torna impastata d’alcol, groove e sigarette come ai tempi di Modern Life Is Rubbish, con tanto di coretto in sottofondo. Coro che ritroviamo in Ong Ong – qui il ritornello appiccicoso è “I wanna be with you” – una canzone che sembra scritta con l’unico intento di chiederci: ricordate quando stavano insieme da giovani (e voi stavate insieme a noi)? Ci ricordiamo – era una giovinezza fa – e ce lo fa tornare a mente anche il pezzo iniziale dell’album, Lonesome Street: quintessenza del suono Blur, urban e curatissimo, con il fischiettio alla fine che fa venir voglia di cercare scarpe Gazelle e magliette a righe nascoste da qualche parte negli armadi.
Coretti e fischietti, primavera e adolescenza, tanto per capirci: l’idea dei Blur che hanno i fan dei Blur. E non è solo vintage, amarcord e mercatino della nostalgia: non c’è solo mestiere nel confezionare queste canzoni, c’è soprattutto la consapevolezza di tornare a fare pop in un modo unico, per cui possono anche bastare cinque giorni a Hong Kong per fare un mezzo capolavoro. Quasi fosse, passatemi la metafora, la seconda luna di miele coatta di una coppia separata bene in arnese, l’intesa si recupera e la complicità ha una nuova formula, ma funziona uguale. Con lui, Damon, che ogni tanto prende e se ne sta per i fatti suoi (i cosiddetti progetti solisti) per poi andare a cena, o a fare un giro in macchina insieme.
C’è poi un momento speciale, intimo, la canzone più bella del disco, in cui Damon e i Blur sembrano stare ancora insieme, forse proprio su quella Ghost Ship che dà il titolo al brano. E noi fan insieme a loro. Non si sa se la luna di miele avrà degli sviluppi, a parte l’annunciato concerto del 20 giugno prossimo a Hyde Park. Ma non importa, perché chissà quanti baci ci saremo dati noi nel frattempo, sopra alla nostra Ghost Ship.