Cassius - Ibifornia | Rolling Stone Italia
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Cassius – Ibifornia

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I Motorbass sono stati supereroi della house francese. Secondi solo al noto duo mascherato, irraggiungibile per la duttilità kubrickiana con cui si è intrufolato in diversi generi piegandoli al proprio volere e per il controllo magistrale dell’immaginario pop. I Cassius sono la continuazione dei Motorbass sia perché condividono un elemento della squadra – Philippe Zdar – sia perché rappresentano un’ideale prosecuzione della medesima idea di disco music (una passione che, comunque, ha fatto da fondale a gran parte della scena french touch, si vedano, per esempio, i cataloghi delle etichette a gestione Daft Punk, Crydamoure e Roulé). Sia chiaro, con il termine non intendiamo il genere musicale codificato nelle risme di compilation lasciate a riposare in espositori d’autogrill, ma il momento embrionale del clubbing in cui si miscelavano musiche di diverse epoche, stili e provenienze: ectoplasmi di soul di Filadelfia, afrobeat, rock e musica latina si agitano tra le superfici levigate di una scrittura molto sicura che evoca jukebox e stabilimenti balneari adriatici; CD infilati nell’autoradio a giugno e tirati via a fine agosto. Tra l’altro, la traccia che dà titolo all’album (un’isola di finzione per metà California, per metà Ibiza) è ispirata – siamo pronti a scommettere – a Sueño Latino: l’incontro tra l’elettronica kraut (E2-E4 di Manuel Göttsching) e un testo pecoreccio che spopolò nelle piste da ballo italiane e internazionali a fine ’80. I Cassius in Ibifornia interpretano uno sbilanciamento della musica da club verso l’accessibilità urbi et orbi reso gradevolmente anacronistico da un decennio di dominio di EDM spaccona: qui si cerca la compattezza e il passaggio radiofonico e, al tempo stesso, si mostra una perizia nella cura delle palette sonore, delle dinamiche e dei chiaroscuri compositivi che è da artigianato sopraffino.

Questa recensione è stata pubblicata sul Rolling Stone di settembre. Clicca sulle icone qui sotto per leggere l'edizione digitale.
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I Motorbass sono stati supereroi della house francese. Secondi solo al noto duo mascherato, irraggiungibile per la duttilità kubrickiana con cui si è intrufolato in diversi generi piegandoli al proprio volere e per il controllo magistrale dell’immaginario pop. I Cassius sono la continuazione dei Motorbass sia perché condividono un elemento della squadra – Philippe Zdar – sia perché rappresentano un’ideale prosecuzione della medesima idea di disco music (una passione che, comunque, ha fatto da fondale a gran parte della scena french touch, si vedano, per esempio, i cataloghi delle etichette a gestione Daft Punk, Crydamoure e Roulé).
Sia chiaro, con il termine non intendiamo il genere musicale codificato nelle risme di compilation lasciate a riposare in espositori d’autogrill, ma il momento embrionale del clubbing in cui si miscelavano musiche di diverse epoche, stili e provenienze: ectoplasmi di soul di Filadelfia, afrobeat, rock e musica latina si agitano tra le superfici levigate di una scrittura molto sicura che evoca jukebox e stabilimenti balneari adriatici; CD infilati nell’autoradio a giugno e tirati via a fine agosto. Tra l’altro, la traccia che dà titolo all’album (un’isola di finzione per metà California, per metà Ibiza) è ispirata – siamo pronti a scommettere – a Sueño Latino: l’incontro tra l’elettronica kraut (E2-E4 di Manuel Göttsching) e un testo pecoreccio che spopolò nelle piste da ballo italiane e internazionali a fine ’80. I Cassius in Ibifornia interpretano uno sbilanciamento della musica da club verso l’accessibilità urbi et orbi reso gradevolmente anacronistico da un decennio di dominio di EDM spaccona: qui si cerca la compattezza e il passaggio radiofonico e, al tempo stesso, si mostra una perizia nella cura delle palette sonore, delle dinamiche e dei chiaroscuri compositivi che è da artigianato sopraffino.

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