«Ma perché diavolo un generale dell’esercito si fa intervistare da Rolling Stone?», si chiede qualcuno verso la fine di War Machine, film liberamente adattato da The Runaway General, il reportage scritto dal giornalista di Rolling Stone Michael Hastings nel 2010. (Lo stesso articolo, fa bene ricordarlo, che ha fatto perdere il lavoro al Generale Stanley McChrystal).
Hastings, morto in un incidente d’auto quattro anni fa, aveva ampliato il suo articolo in un libro, The Operators. Il suo lavoro ha scatenato un putiferio, soprattutto a causa delle dichiarazioni che ha strappato al generale e ad alcuni uomini del suo staff: critiche fortissime alla strategia militare di Obama, policy che secondo i militari avrebbe portato ad un “Casinistan”. Per farla breve: l’uomo ha sparlato del Presidente e ne ha subito le conseguenze. Ma questa storia non è solo una storia di hybris: il vero centro del racconto è il modo in cui funziona la macchina dell’esercito.
Per questo Rolling Stone ha parlato con il generale e questo dovrebbe essere il motivo che ha spinto Hollywood e Netflix a produrre il film. Insomma, c’è molto potenziale drammaturgico nella storia di un generale folle che vuole vincere la guerra nonostante il suo presidente abbia appena annunciato il ritiro delle truppe. Brad Pitt interpreta il protagonista (in questa versione si chiama Glen McMahon): l’attore ha interpretato divinamente ruoli di questo tipo (Fight Club, Snatch, Burn After Reading) ma stavolta è andato troppo oltre e ha trasformato il suo personaggio in una caricatura. La sua performance è esagerata quando dovrebbe essere sottile, sopra le righe invece che discreta. Il generale è convinto di vincere la guerra con una controinsurrezione, crede negli uomini che sono sotto il suo comando e mette sempre al primo posto la gloria personale. Sono molte le dimensioni narrative da esplorare, ma Brad Pitt e la sceneggiatura ne hanno scelta solo una.
David Michôd (il talentuoso regista australiano di Animal Kingdom) si perde nel suo racconto bizantino della guerra globale: il suo film vuole essere una satira selvaggia – una sorta di Dr. Stranamore del nuovo millennio -, ma non ha lo sguardo e il cinismo dell’opera di Stanley Kubrick. Il regista si diverte a mostrare le umiliazioni che Obama riserva al suo general, racconta Hamid Karzai (Ben Kingsley) come un uomo ossessionato dai DVD e, in una scena ambientata in un ristorante parigino, trasforma il film in una vera e propria farsa.
La ricerca ossessiva della risata disarma tutto il potenziale del film, per non parlare dell’irritante voce fuori campo di Scoot McNary. La sua interpretazione del reporter di Rolling Stone è fastidiosa e rompe una delle regole fondamentali della narrativa cinematografica: show, don’t tell. Nel suo libro Hastings ha scritto: «Gli occhi blu del generale riescono a scavarti dentro. Se hai fatto una cazzata, se l’hai deluso, i suoi occhi ti distruggono l’anima senza che venga detta una singola parola». Cazzo se mi sarebbe piaciuto vedere una cosa del genere. E sono sicuro che Brad Pitt ci sarebbe riuscito, ma non in questo film.
Da qualche parte, lungo la strada, War Machine ha dimenticato che leader mondiali e generali non sono interessanti se non si raccontano le loro nevrosi e i loro sentimenti.