Cinquanta sfumature di rosso, la recensione | Rolling Stone Italia
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‘Cinquanta Sfumature di Rosso’, meno male che è finita. Perché è finita, vero?

La saga che ci era stata venduta come trasgressione allo stato puro si è rivelata per quel che è: una storia d’amore nel senso più classico del termine. E niente, che noia.

Un po’ mi sento in colpa, perché stroncare Cinquanta Sfumature di Rosso è come sparare sulla croce rossa o rubare le caramelle a un bambino… Mi sento in colpa sì, ma solo un po’.

Perché altro che le punizioni kinky che Christian infligge ad Ana quando lei alza gli occhi al cielo. È chiaro che con questo film qualcuno voleva punire noi. E senza nemmeno farci divertire troppo. L’unica via d’uscita sarebbe urlare la parola di sicurezza, “rosso”, quella che i due piccioncini usano nei loro giochetti per dire che il limite è stato raggiunto. Proviamo: rosso, rosso, rosso! Nessuno ci sente. Allora tocca davvero scrivere la recensione.

Ebbene sì, Anastasia e Christian sono convolati a nozze, ma questo lo sapevamo già dalla prima scena del primo capitolo. E allora via al montaggio patinatissimo del matrimonio e della luna di miele extralusso, dove lui sclera perché lei si è tolta il pezzo sopra del bikini in una spiaggia francese in cui praticamente tutte le ragazze sono in topless.

Segue improvviso ritorno alla vita normale in cui i problemi, quelli veri, sono scegliere l’arredamento e i fiori per l’appartamento. Ma Ana non ci sta, combatte per difendere la sua indipendenza (ahahah) e continuare a lavorare. Attenzione, qui c’è il secondo dramma: visto che Christian è un marito a dir poco ingombrante, lei, almeno in ufficio vuole mantenere il suo cognome “da signorina”. E lui, milionario alla Elon Musk, non ha niente di meglio da fare che precipitarsi a interrompere una riunione per chiederle come mai il suo messaggio alla nuova mail Ana.Grey@Rosso.com non sia stato recapitato. Niente paura: ogni volta che c’è un conflitto, la risoluzione sexy è in agguato. E spesso fa ridere. Involontariamente.

Torniamo alla storia: i neo-sposini sono rincasati dal viaggio prima del previsto perché l’ex capo di Ana, il viscido Jack Hyde, vuole vendicarsi per essere stato licenziato. E allora prova a sabotare la società di Christian, tenta addirittura di rapirgli la moglie. Il punto è proprio questo. Se la trilogia iniziava promettendo soft-porn e bondage a go-go, il secondo film convertiva tutto in commedia romantica. E il terzo capitolo diventa improvvisamente uno pseudo-thriller tra pistole e sequestri di persona, un action-movie con tanto di inseguimenti in auto sportive e Ana che per l’occasione (e dal nulla) si trasforma in Baby Driver. Ma, di nuovo, non vi preoccupate: dopo aver seminato il cattivo c’è pure il siparietto hot nel parcheggio. Risate.

Per provare a scaldare l’atmosfera James Foley, già regista delle Sfumature di Nero, usa tutte le frecce al suo arco, cioè location splendide e soprattutto due belloni come Dakota Johnson e Jamie Dornan, più a loro agio rispetto all’inizio, questo bisogna riconoscerlo. Meglio lei di lui, che a tratti sembra chiedersi che ci fa lì. Ma la sceneggiatura di Niall Leonard (il marito dell’autrice della saga E. L. James) rema decisamente contro. E anche la famigerata scena del gelato, ad alto potenziale erotico, si conclude con un epic fail. Proprio come l’improbabile svolta thriller.

Nel frattempo, tra una sveltina in macchina e un pomeriggio nella stanza dei giochi, Ana dimentica di farsi somministrare l’iniezione anticoncezionale. E scopre di essere incinta. Apriti cielo. Christian impazzisce, perché non vuole dividere la sua donna con nessuno, ma soprattutto perché con un bambino per casa, altro che scotch nelle prese elettriche, la porta della red room andrebbe proprio murata. Ma, ancora una volta, c’è bisogno di dirlo? Come ogni rom-com che si rispetti, tutto si risolve per il meglio. E niente: che noia.

Lo sospettavamo. La saga che ci era stata venduta come trasgressione allo stato puro nel finale si è rivelata per quel che è: una storia d’amore nel senso più classico del termine, per giunta con un prevedibilissimo happy ending e qualche messaggio che, nell’era del #MeToo, ci saremmo volentieri risparmiati.