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‘Copia originale’, la recensione: Melissa McCarthy può fare qualsiasi cosa

Il film tratto dalle memorie di Lee Israel, scrittrice diventata falsaria di lettere delle celebrità, brilla anche per l'interpretazione di Richard E. Grant. Ma spacca grazie all'attrice
4 / 5

Melissa McCarthy è candidata all’Oscar come migliore attrice per Copia originale, la vera storia di Lee Israel, una solitaria e amareggiata scrittrice di biografie di celebrità che decide di diventare falsaria per pagare i conti quando il lavoro scarseggia. L’Academy in precedenza aveva nominato McCarthy come attrice non protagonista per Le amiche della sposa del 2011, il tipo di commedia chiassosa che è diventata la sua specialità. McCarthy fa sicuramente ridere, ma questo ruolo – una donna sempre sbronza e irritabile con un cuore malconcio e una spina dorsale di acciaio – è prima di tutto drammatico. E McCarthy soddisfa tutte le aspettative, è uno schiacciasassi.

La regista Marielle Heller, che ha esordito trionfalmente con Diario di una teenager del 2015, qui va a segno ancora una volta. Dà al film quel tocco atmosferico dei primi anni ’90 a Manhattan che ricorda Woody Allen e Seinfeld. Dalle panchine nel parco, dai ristoranti e dagli squallidi bar al fatiscente appartamento nell’Upper West Side di Lee, tutto sembra vissuto – per non parlare della cacca di gatto sotto il divano. Lee è molto amorevole con quel gatto malaticcio, ma il resto del mondo viene massacrato dalla sua boccaccia. A una festa a New York data dalla sua bistrattato agente (che bello vedere di nuovo Jane Curtin), l’autrice prende in giro tutti quelli che vede, soprattutto il romanziere di bestseller macho Tom Clancy. “Signore, dammi la sicurezza di un uomo bianco mediocre”, dice con sfacciataggine.

Mentre è in biblioteca a fare ricerche per un libro su Fanny Brice – che nessun editore vuole -, Lee trova due lettere, scritte dalla Funny Girl in persona, nascoste tra le pagine di un vecchio volume. E dopo aver scoperto che può venderle per pochi dollari in una libreria locale gestita dalla sua amica Anna (Dolly Wells), l’ex-biografa intraprende la sua nuova carriera come falsaria. Capisce che il valore di mercato aumenta se le lettere sono vivaci, usa le sue capacità di scrittura creativa per migliorare la corrispondenza di luminari come Noel Coward e Lillian Hellman. “Sono una Dorothy Parker migliore di Dorothy Parker,” gongola. Dal nulla la donna si costruisce un giro di affari, vendendo finta corrispondenza a un ignaro collezionista (Stephen Spinella). Ha tanto successo che assume un braccio destro, Jack Hock (Richard E. Grant), un abile narratore gay inglese che riesce ad affascinare anche i casi più difficili (come un minaccioso ricattatore interpretato dal marito di McCarthy, Ben Falcone) e sa bene quanto vale: “Non sottovalutare mai degli scintillanti occhi blu e un po’ di intelligenza di strada”.

Le scene accattivanti di McCarthy insieme a Grant sollevano il film dal rischio ripetitività mentre Lee e Jack mandano avanti il loro business illegale nella speranza che i compratori e l’FBI non li becchino. Almeno, non ancora. Grant (Withnail & I) non ha un ruolo così ghiotto da anni. È sublime. Eppure il film è tutto di McCarthy, che rivela il cuore di Lee senza ricorrere alle cazzate del sentimentalismo hollywoodiano. In un promettente primo appuntamento con Anna, rovina tutto stando sulla difensiva. E il suo rendez-vous con un’ex-amante (Anna Deavere Smith), che comprensibilmente non se la riprenderà, è un vero proprio studio sull’auto-sabotaggio.

Lee, scomparsa nel 2014 a 75 anni, si è fatta un’ultima risata trasformando la sua cattura da parte dell’FBI – dopo una truffa durata tre anni in cui ha falsificato più di 400 lettere – in un best seller chiamato Can You Ever Forgive Me? “Continuo a pensare che le lettere,” ha scritto Israel, “siano il mio lavoro migliore”. (Le sarebbe piaciuto altrettanto anche il film.) Non c’è un grammo di aggressività da sitcom nella sceneggiatura che Nicole Holofcener e Jeff Whitty hanno tratteggiato dal suo libro di memorie. E Heller non dice mai quello che Lee sta pensando, anche se di questo c’è traccia nella colonna sonora traboccante delle canzoni preferite della scrittrice: Peggy Lee, Blossom Dearie, Jeri Southern e Dinah Washington – donne jazziste che hanno cantato quel blues che questa esperta falsaria ha vissuto ma non è mai riuscita a esprimere. È McCarthy che ci permette di vedere Lee come una donna a 360 gradi – un ruolo che dimostra che lei ha quello che serve per fare dramma, commedia e tutto quello che ci sta in mezzo.

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