C’è sempre un dolore: o almeno ci dovrebbe essere. Anche nella commedia, anzi soprattutto: che senza quella spina, quel livido, nemmeno ha senso alzarsi da letto o almeno provare a vedere se ce la si fa. Che poi mica c’è niente da ridere, sai: e il terreno (la malattia…) stavolta è dei più scivolosi. Ma proprio per questo è bello inciampare: scoprendosi impacciati ancor più che smarriti davanti alla paura della morte (che già di per sé è un potentissimo motore narrativo) oltre che a quella, altrettanto umana, della vita.
Eternamente impreparati, gli uomini: e non solo a quello che, effettivamente, è più grande di noi, di tutto. Ma timidi, confusi, sgomenti, irrisolti (basta che non ci dite che siamo pure delicati…) in un quotidiano in cui i conti non tornano mai: e allora i conti li devi fare con te. E ti metti in gioco, come Francesco Bruni che sul piatto posa addirittura il suo privato: raccontando, là dove nessuno si salva da solo, sì lo sgomento, il disorientamento, l’incredulità di chi all’improvviso scopre che vivere è una questione di percentuali, ma anche la fragilità del maschio contemporaneo, la sua sensibilità un po’ goffa, la timidezza pigra. Che meno male ci sono le donne, quelle col camice e quelle senza, in un ribaltamento di ruoli dove non c’è guerra dei sessi, perché se guerra è stata l’hanno già vinta loro.
Molto onesto, partecipe, nel guardare anche con leggerezza (e dolcezza) lo spaesamento di chi deve fare fronte alla propria inadeguatezza (che «a noi quelli perfetti non ci piacciono»), Cosa sarà, girato dallo storico sceneggiatore e sodale di Paolo Virzì a tre anni da Tutto quello che vuoi, il suo film migliore, ha confronti schietti, affetto in gioco e cose (mai) dette che aggiungono verità alla parabola umana di un protagonista – regista di commedie che non fanno ridere (e che di solito la gente non va a vedere) –, che scopre (complice una minigonna…) di avere la leucemia.
Un percorso di paura e di rinascita che Bruni ha conosciuto sulla propria pelle e che qui rivive con garbo, con pudore, tra la chemio e i ricordi dell’infanzia, chi fa un po’ più fatica con le persone (e magari chiede aiuto alla cartomante) e chi le persone non le capisce mai. Ma senza calcare la mano sul dramma, tenendosi anzi sempre aperta una via di fuga, una scappatoia, dove l’aria è meno tesa, l’ansia scolora nell’abbraccio. Senza per questo, d’altro canto, nascondere il timore, molto attuale, del domani, nell’attraversare un presente confuso (beffardamente il film avrebbe dovuto chiamarsi Andrà tutto bene, titolo deciso pre pandemia), nella speranza, per nulla scandalosa, di un lieto fine.
Evitata una linearità che lo renda troppo facile, il film apre sulle note di Lou Reed e chiude con Morgan (che forse siamo tutti in cerca di un Altrove), lasciandosi cullare nel mezzo dalla bellissima Lighthouse di Patrick Watson, mentre i flashback compongono il mosaico di un uomo stanco e giustamente spaventato a cui Kim Rossi Stuart (difficile, rivedendolo in un letto di ospedale, non pensare a Questioni di cuore) presta il volto, cogliendone l’incertezza, il suo essere indifeso. Forse si poteva osare anche di più (e meglio) sul lato della commedia, provare addirittura a essere stridenti: ma il sentimento è intatto. E così la commozione.