Non è Lupo Solitario né Il mattino ha l’oro in bocca. On Air-Storia di un successo è un film, ma allo stesso tempo un gioco. È un racconto, ma anche un flusso di coscienza. È un’opera a uso e consumo dei fan e allo stesso momento il modo migliore per conoscere quel fenomeno che è Marco Mazzoli. Fenomeno perché uno che fa quegli ascolti lo è. Fenomeno perché il padrone di casa dello Zoo di 105 è uno da studiare, perché come lui nessuno mai: se è vero che Stern è il boss della radio bella, sporca e cattiva, Mazzoli lo è di quella italiana, che ha fatto del cialtrocazzonismo un’arte, della libertà totale un totem, della demenzialità, dei toni surreali, della follia caotica ma organizzata, un mix vincente. Fenomeno, infine, perché “il dj che non piace” può darla a bere a tutti con quel sorriso e le battute che vorrebbero far credere che sì, lui è uno della strada che improvvisa e gli ha detto un gran culo. Uno che passa da Noise, Alisei e Wender a Maccio Capatonda, Herbert Ballerina e Ivo Avido, e rimane lì in vetta (anzi, fa ancora meglio) e poi gli altri se li riprende pure, non è uno qualunque. Ha sì un talento naturale, innato, unico. Ma anche una capacità di costruire, scrivere, pensare, cambiare, comandare, manipolare (il pubblico, la narrazione radiofonica – basti pensare agli scherzi e al situazionismo delle chiusure dello Zoo, delle liste dei nemici mai stilate, della macchina del tempo), fuori dal comune. Mazzoli, per chi scrive, è un genio. Uno di quelli che tra gli ascoltatori per due terzi ha ammiratori che lo considerano uno di famiglia e per un terzo detrattori che lo ascoltano con una costanza disarmante “per vedere dove arriverà”. E lui se ne frega: delle vestali che lo vorrebbero più mazzoliano di Mazzoli, degli hater che ne aspettano gli eccessi per sparargli contro (e magari obbligarlo a pause di uno o due mesi).
On air-Storia di un successo non è una biografia. Sono i primi 40 anni e rotti di un ragazzo che ce l’ha fatta, che ha la testa troppo americana – benedetto fu Walt Disney che diede al papà e alla famiglia l’opportunità di allargare gli orizzonti – per farsi ostacolare dalle meschinità dell’eterna provincia italiana, e che non si è posto limiti. Con la radio, con la vita, con le donne, con i capi, con gli amici. E con il cinema, perché pochi al posto suo ci avrebbero messo la faccia, a interpretare se stessi, come deus ex machina.
Merito, va detto, di Davide Simon Mazzoli. Che ha scritto con lui Radiografia di un dj che non piace, che non ascolta lo Zoo (chi scrive sì, pure durante le lezioni dell’università troppi anni fa), che ha deciso da subito di non nascondersi dietro un apologetico documentario biografico o a un biopic classico. Animazione, scenografie buffe, destrutturazione della sceneggiatura e del linguaggio cinematografico, sospensione della credulità, si concede più o meno tutto questo giovane cineasta che, come il cugino, non ama i limiti. L’opera ha un andamento naif ma allo stesso tempo capace di tenere insieme quelle anime diverse, dipingendo un ritratto fragile, dolce, istrione, volubile di un uomo che non ha mai permesso a nessuno di fermarlo. Bravo Giulio Greco a interpretare la cavalcata di Marco verso il successo, così come Dario Eros Tacconelli a impersonare il ghost writer un po’ squattrinato e un po’ snob che deve condurre in porto la biografia. Realtà vissuta e romanzata si uniscono, raccontando con sincerità chi ha sempre avuto un sogno, lo ha realizzato, e ora lo vive alla grande. Non dimentica nulla Mazzoli, ma più che ai tradimenti del passato guarda alle sfide del futuro. E il regista semina divertimento, intrattenimento, ma anche momenti drammatici: la scena dei Giuda (anzi dei San Pietro, o quasi: “tre di loro mi tradiranno”), i secondi prima della prima diretta con il nuovo team, un pranzo con la mamma anziana (una Chiara Francini che si ritaglia un ruolo dolce e affatto scontato, con quella brillantezza comica messa da parte a favore di poche pennellate di malinconia ben messe) che dice molto delle fragilità del dj, senza doverle esplicitare. Il cast dei grandi nomi – Marzocca, Tognazzi, Giannini – viene giocato bene, a incarnare stereotipi inevitabili (il pigmalione, l’editore gradasso, il direttore bastardo e bacchettone) un po’ gigioneggiando e un po’ mettendoci del mestiere. E così, come lo Zoo, ci si ritrova di fronte a un’opera sorprendente, mai classica, volutamente discontinua, popolare e corale, con Mazzoli mattatore, ma capace di lasciar spazio ai suoi tanti sodali.
E vien quasi da volergli male al buon Marco. Perché la sua è una favola, in questo paese che ormai di meraviglie ne ha poche. Perché lui ce l’ha fatta. Perché se quelli come me ancora inseguono un sogno (quello di far radio come lui, e magari con lui, tra gli altri), lo devono a quelli come lui. A chi non si arrende. A chi cade, per rialzarsi. E vincere. E che magari quanto tutto va alla grande, precipita. Per ricordarsi che sapore ha la polvere. A chi non dice mai sì quando gli conviene, ma solo quando gli va.