La Malanoche poteva essere il disco giusto per liberare l’indie dall’ossessione della cameretta, per raccontare un mondo stralunato, immaginario, senza tempo.
Gli ingredienti ci sono tutti, a partire dalla reginetta sfocata ritratta in copertina, più Paolo Roversi che l’ennesimo scatto trafugato da Instagram. Poi gli arrangiamenti, coloratissimi: grazie per i fiati, era ora, per le chitarre umide di detune e phaser, per le percussioni mediterranee. Peccato che De Leo inciampi su se stesso, sulla sua voce intimidita e sui testi, che nonostante alcune trovate affascinanti (Muse, Mylena) si rifugiano spesso in un citazionismo un po’ stucchevole (Lucy, Lo zoo di Torino) e in qualche rima baciata di troppo.
Un esordio più piccolo della somma delle sue parti, ma necessario per una scena che ha bisogno di liberarsi dai suoi piccoli amori di provincia. Andrea Coclite