Ci sono dei fantasmi a infestare questa tranquilla casa nella Hudson Valley, ci viene detto all’inizio di L’apparenza delle cose (disponibile su Netflix). Sono gli spiriti dei vecchi proprietari che potrebbero ancora avere dei conti da regolare nel mondo dei vivi, o che forse vogliono proteggere i nuovi occupanti da un possibile pericolo, o che forse sono solo dei bastardi maligni decisi a ispirare i nuovi residenti ad abbracciare la loro anima nera. Gli abitanti del circondario sembrano accettare tutto questo come un dato di fatto, alcuni addirittura come un vantaggio. E tutti sanno tutto di quella casa una volta appartenuta ai Vayle e ora – siamo all’inizio degli anni ’80 – appena acquistata da una giovane coppia: George Claire (James Norton), neoprofessore dell’università privata della zona, e sua moglie Catherine (Amanda Seyfried). La villa è stata teatro di un’oscura tragedia, il che in parte spiega perché i Claire l’abbiano portata via a un prezzo così basso. A giudicare dal ritratto in stile “American Gothic” dei due proprietari originali, appeso al muro del circolo locale, sembra lunga la storia di follie e misfatti legata a quella che una volta era una fattoria.
Nessuno sa chi sia veramente lo spirito che puntualmente appare davanti agli occhi di Catherine e della figlia Franny (Ana Sophia Heger). Ma tutti hanno la loro ovvietà da comunicare alla giovane mamma allarmata da queste presenze: «Il male entra in una casa solo quando si sente il benvenuto», dice un vicino; «Il bene vince sempre: se non in questo mondo, nell’aldilà», afferma un altro; «Pensiamo di possedere queste case, ma in realtà siamo solo dei guardiani», sostiene l’amica hippie interpretata da Rhea Seehorn.
Se avvertite un senso di déjà-vu, soprattutto nel sentir pronunciare quest’ultima battuta, non siete i soli. Questo adattamento del romanzo omonimo del 2016 scritto da Elizabeth Brundage finisce presto nei ben noti territori della “paranormal activity”, ma è il film stesso ad essere infestato dalle storie di fantasmi che l’hanno preceduto (e che erano di gran lunga migliori). La familiarità con questo genere di racconti non deve essere disprezzata, e i registi Shari Springer Berman e Robert Pulcini fanno il possibile per dimostrare di aver studiato il genere soprannaturale: la sedia a dondolo che cigola, le strane presenze che baluginano nel buio, la radio che parte anche quando nessuno l’ha accesa, la pallida figura che spunta all’improvviso sullo sfondo e che altrettanto rapidamente scompare. Ma c’è un evidente squilibrio tra il lessico “di genere” studiato dai due autori e l’uso che ne fanno per raccontare quella che è, nella sua essenza, una storia più profonda e oscura sul male che gli uomini fanno alle donne, e sulla sofferenza che le donne provano per colpa di esso.
È questa la vera “presenza” nell’Apparenza delle cose, soprattutto dal momento in cui diventa chiaro che George non è il bravo ragazzo che sembra. Si può arrivare a questa conclusione già nell’istante in cui il docente di Storia dell’arte protagonista inizia a corteggiare una ragazza molto più giovane di lui (la Natalia Dyer di Stranger Things); o quando reagisce in modo un po’ troppo aggressivo nei confronti del personaggio di Seehorn, che sta mettendo dei grilli in testa a Catherine; o quando vengono chiariti certi episodi del suo passato. O forse quel sospetto non può passarvi per la testa finché non lo si vede guardare un’ascia con quello sguardo che lascia intendere che tutto vorrebbe farci, fuorché tagliare la legna. (Un uomo frustrato dalle proprie inadeguatezze, mosso da forze maligne, pensa di prendere un’ascia: come dicevamo, fa suonare più di un singolo campanello d’allarme.)
Ma se il libro riusciva a filtrare la tossicità maschile e la vulnerabilità femminile attraverso la lente dell’horror con esiti simbolici notevoli, qui sembra tutto assolutamente accidentale: l’espediente di spaventi e trucchetti d’ordinanza è, nel migliore dei casi, totalmente superficiale. La scelta di Berman e Pulcini per questo film non sembrava giusta nemmeno sulla carta. Il duo è specializzato nel racconto di personaggi strambi ed eccentrici: American Splendor del 2003, ispirato al fumetto di Harvey Pekar, resta a tutt’oggi il riferimento su come fare allo stesso tempo un biopic e un adattamento di graphic novel esemplare. (Ma date un occhio pure al sottovalutato Un perfetto gentiluomo, uscito nel 2010.) E in effetti, in quest’ultimo pasticcio gotico, le uniche scene che prendono vita sono la cena a casa di Seehorn e del suo amorevole e altrettanto spregiudicato marito, interpretato da James Urbaniak, e la festa tra docenti universitari che sembra portarci dalle parti di Chi ha paura di Virginia Woolf? Ci sarebbe piaciuto vedere i film interi dietro quelle brevissime scene sepolte tra gli inutili boooooooo che dovrebbero metterci paura.
«Ha capito che tutto ciò che esiste nel mondo naturale ha una controparte in quello spirituale», dice F. Murray Abraham, il professore capo di George, a proposito di un saggio dedicato a un artista “mistico”; è solo una delle tante battute che l’attore premio Oscar declama per comporre una continua “Esposizione alla F. Murray”. Ma è il segnale del fatto che Catherine ha un suo proprio spirito con il quale fare i conti, e che il precedente augurio “il bene vince sempre” è destinato a restare una mera voce fuori campo. È anche un’eroina con un sacco di problemi da gestire, da un grave disturbo alimentare all’interesse verso il muscoloso teenager (Alex Neustaedter) che si offre per fare qualche lavoretto in casa (e che, ovviamente, ha una connessione più che diretta con quel luogo); ma manca lo spessore capace di renderla qualcosa di più rispetto alla semplice caricatura della donna in pericolo. Seyfried è molto brava e fa il possibile col poco materiale che ha a disposizione, dimostrando per l’ennesima volta di saper reggere molto bene primissimi piani “terrorizzati”. Tuttavia, ciò non le basta a trovare il tono giusto, nella seconda parte del film, per rendere credibile il passaggio da donna che vede (o crede di vedere) i fantasmi a vera vittima della situazione. Alla fine, tutto è perduto. Quello che resta è un mucchio di cose solo apparenti, che hai visto e sentito già mille volte.