Uno dei pesi massimi dell’hip hop riassume la sua eredità in un album geniale e contraddittorio.
Chi, nel mondo, ha orecchie migliori di Andre Young? Il filo conduttore della carriera di Dre, in tutte le sue numerose incarnazioni, è la sua capacità di sentire in maniera diversa da chiunque altro, e la certezza che milioni di clienti paganti vorrebbero sentire quello che sente lui. Paradossalmente è stato sia prolifico che paziente: sembra che non abbia mai smesso di lavorare, eppure dal suo ultimo LP solista ad oggi sono scivolati via in qualche modo ben 16 anni. Per la maggior parte dei quali, ha dichiarato, stava lavorando a un disco solista, il seguito dell’iconico The Chronic (1992) e del roboante Dr. Dre 2001 (1999). Del progetto – che diventava sempre più leggendario man mano che il tempo passava – era noto solo il titolo, Detox, e poco altro. Ora, con scarso preavviso, il ritorno solista di Dre è finalmente arrivato fino a noi, ma con un colpo di scena: non si tratta affatto di Detox. Forse è una mossa di marketing: come avrebbe potuto soddisfare le folli aspettative legate a quel titolo? O forse il sogno di Detox ha paralizzato Dre, e l’unico modo di sentirsi di nuovo libero era cambiare prospettiva.
La nuova prospettiva che ha scelto è il suo passato. Compton va a braccetto con il film biografico sugli N.W.A., e lo sguardo nostalgico è evidente fin dall’intro, dove una voce tratta da un vecchio documentario tv spiega come la città natale di Dre in California si sia trasformata da paradiso della classe media afroamericana a “un’estensione del ghetto” devastata dal crimine.
Dre si lascia andare ai ricordi degli oltraggi del passato (“Faccia in giù sul pavimento con i manganelli degli sbirri…”) e delle glorie (“… Ora senti risuonare Fuck da Police in tutti i club”), ma non è come visitare un polveroso museo della memoria. Compton contiene alcune delle sue produzioni più ambiziose, creative e farcite di idee di sempre, combinando le grandiose stratificazioni e le atmosfere pesantemente narcotiche tipiche della sua discografia con una manciata di nuovi, coraggiosi trucchetti. In capolavori come Talk about it e Genocide, Dre e i suoi co-produttori sono riusciti a mettere in piedi un folle numero da giocolieri, mantenendo in perfetto equilibrio pulsanti bassi funk, trombe jazz, estesi assoli di charleston, chitarre acustiche e batterie irresistibilmente pesanti. Liricamente Compton non è solo vario e vivace, ma anche pieno di un’indignazione che suggerisce che il successo planetario non sia riuscito a smorzare il vetriolo che alimentava Dre nel periodo degli N.W.A. In Issues, in cui compare anche Ice Cube, Dre dichiara “Fanculo ai soldi, quella merda non mi cambierà mai”. Un verso che sembra allo stesso tempo borioso e vero, nel bene e nel male: la traccia termina con una scioccante fantasia sull’omicidio efferato di una donna.
Lungo tutto il corso dell’album il modo di rappare di Dre (che come sempre è aiutato da alcune persone che scrivono i testi insieme a lui) è impressionante. Ha rinunciato al suo stile stentoreo e diretto in cambio di doppie sincopi, ringhi aspri e canzoni detonanti: Eminem e Kendrick Lamar, entrambi presenti nel disco, lo hanno chiaramente contagiato. Quest’ultimo lo ha contagiato anche su altre cose, forse: è l’album di Dre più esplicitamente politico di sempre, in cui versi sia suoi che dei suoi ospiti evocano la brutalità della polizia, e in particolare le uccisioni di Michael Brown (“Sangue sul cemento, la gente nera è in lutto”) e Eric Garner (“Non riesco a respirare, non riesco a respirare”). È ancora pieno di contraddizioni – in Animals si definisce “Un prodotto del sistema, cresciuto con i soldi dell’assistenza sociale”, ma in Darkside/Gone rappa, con palpabile disgusto, che “Tutti quelli che si lamentavano delle loro situazioni mi hanno perso, amico”.
È la somma di tutto questo che rende l’album così contraddittorio e abbagliante. Non è Detox, è qualcosa di più vero, e migliore.