‘Dumbo’, la recensione: il remake di Tim Burton non vi rovinerà l’infanzia, anzi | Rolling Stone Italia
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‘Dumbo’, la recensione: il remake di Tim Burton non vi rovinerà l’infanzia, anzi

È il suo film più tenero e anche quello in cui è andato più sul sicuro. C'è tutto il genio visionario del regista più strambo e creativo di Hollywood, ma troppo poco del suo DNA dark

Partiamo dall’ABC: la fiaba di Dumbo è il materiale dei sogni per un folletto del bizzarro come Tim Burton. Perché è la storia di un outsider, un tenero freak che qui lotta non per appartenere, ma per sfuggire a una società che lo deride e lo emargina. E probabilmente questo live-action è il film più dolce che Burton abbia mai realizzato, ma è anche quello in cui ha rischiato di meno. Per capirci, c’è il genio visionario del cineasta più strambo e creativo di Hollywood — l’impianto visivo è impressionante, un vero e proprio spettacolo pop — ma troppo poco del suo DNA goth e oscuro. La prospettiva burtoniana sul cult Disney insomma, non vi rovinerà l’infanzia, anzi.

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Eppure il Dumbo di Tim Burton è solo per un terzo un remake dell’originale: ovviamente c’è l’elefantino con le orecchie enormi che viene crudelmente separato dalla madre e trasforma il proprio difetto in un’arma vincente, ma per il resto il film è qualcosa di nuovo. Nel cartoon del 1941, Dumbo impara a volare a pochi minuti dalla fine grazie ai corvi (che no, nel live-action non ci sono, perché additati come portatori di un messaggio pseudo-razzista) e quando riesce a farlo durante lo spettacolo è una sequenza liberatoria di una purezza totale. Quello stesso senso di meraviglia è anche nei voli del film, che però non ne sono il culmine emozionale. Dumbo capisce quasi subito quello di cui è capace e spiega le orecchie più volte, che alla quarta “ok, abbiamo capito”. Se non fosse per quella creatura incredibile che è il cucciolo di elefante realizzato in computer graphic, una magia della tecnica che ruba ogni scena con le sue espressioni ferite e gli occhi azzurrissimi. È fisicamente impossibile non farsi sfuggire una lacrimuccia (nella migliore delle ipotesi) quando lo separano dalla madre. Spoiler: non ci riuscirete. E se ci riuscite probabilmente avete qualcosa che non va, senza offesa.

Dumbo insomma è ancora commovente come lo ricordavamo, ma il racconto di scoperta e accettazione di se stessi diventa anche una parabola sullo sfruttamento e sulla funzione salvifica della famiglia in senso allargato, di qualunque tipo essa sia (con un finale un po’ ecologista niente male). E ci starebbe anche nell’ottica più cupa del regista. Il problema è che accanto agli animali, che qui non hanno il dono della parola, si muove un mix di personaggi non troppo riusciti e nemmeno troppo necessari.

Si salvano Danny DeVito (che torna a collaborare con Burton dopo il Pinguino di Batman — Il ritorno, Mars Attacks! e Big Fish), nei panni di Max Medici, lo sbrindellato proprietario del circo che in fondo ha il cuore tenero, e Michael Keaton che impersona, con tanto di parrucca argentata improbabile, il losco e opportunista proprietario di Dreamland, primo parco di divertimenti al mondo, che rileva la compagnia di Medici dopo aver scoperto il talento di Dumbo. E di fatto è il villain della storia. Sono entrambi sopra le righe, con poche sfumature, ma fanno il loro sporco lavoro.

Per il resto Burton sembra quasi incastrato tra la seriosità di Colin Farrell nei panni di Holt Farrier, l’abile cavaliere del circo Medici, che torna dalla Prima Guerra Mondiale senza un braccio e con due figli di cui occuparsi dopo la morte della moglie, e l’elegante eccentricità di Eva Green — ormai sacerdotessa del cool kitsch — nel ruolo della trapezista parigina Colette Marchant (che il doppiaggio in italiano non aiuta). Se pensate alla varia umanità sotto il tendone, probabilmente non poteva esserci contesto migliore per scatenare l’immaginazione di Burton. E invece tutto il potenziale espressionista di quella fucina di misfits che è il circo (vedi The Greatest Showman) viene sprecato. Colpa della sceneggiatura di Ehren Kruger certo, ma anche del regista che in qualche modo li usa come riempitivo della storia. Peccato, anche perché di quel capitale umano Burton probabilmente nemmeno aveva bisogno: Dumbo funziona quando il regista torna alle origini, alla semplicità di una fiaba sulla diversità che ha spezzato i cuori di almeno tre o quattro generazioni. E sì, tra le altre citazioni, gli elefanti rosa ci sono anche qui. Ma non come ve li ricordate.

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