Giganti del pop, amanti dell’apparenza e dello stile, i Duran Duran non si sono mai accontentati di aderire del tutto a quel concetto di sublime superficialità tanto amato da Andy Warhol (che pure è stato un grande fan). Così al loro ritorno, con Paper Gods, i ragazzi di un tempo si perdono ancora come adolescenti nel conflitto tra luci colorate e seduzioni più dark. Gli idoli di carta cui allude il titolo aprono a svariate possibilità. Sarà l’industria musicale? La fugacità delle mode? O gli stessi Duran Duran? C’è da dire che, senza un minimo di autoconsapevolezza o di autoironia, la band non sarebbe entrata nel mito. Però troppa consapevolezza fa pure i suoi danni e rischia di rendere Paper Gods un album un po’ manierato. A partire dalla cover, con simboli-feticcio che appartengono all’iconografia dei Duran Duran.
A 37 anni di distanza dal loro esordio, Paper Gods pare un onesto Greatest Hits rifatto da una tribute band. Se siete nati nei ’70, Face for Today potrebbe ricordarvi le vostre imbarazzate feste delle medie, e You Kill Me with Silence certi pomeriggi di tormentato amore post-puberale. Nel caso vogliate riprovare quei sentimenti, i Duran Duran vi fanno volentieri compagnia. Come omaggio a se stessi, in Paper Gods non mancano gli ospiti d’eccezione, anche quelli scelti con metodo. Da John Frusciante (una strizzatina d’occhio a un certo pubblico) a Lindsay Lohan, che ci regala un parlato da centralinista sexy su Danceophobia, a Kiesza in Last Night in the City, che col suo urlato gonfio e perforante, mescolato ai vari “yeah!”, potrebbe trasformarla in un nuovo tormentone radiofonico.