È difficile guardare Ma Rainey’s Black Bottom (dal 18 dicembre su Netflix), l’adattamento cinematografico by George C. Wolfe dell’omonima opera teatrale del 1982 di August Wilson, senza ricordare che è l’ultimo film di Chadwick Boseman. È dura un po’ perché Boseman – che impersona l’ambizioso suonatore di corno Levee – fa un lavoro pazzesco sul ruolo, uno degli uomini di colore tormentati e tragicamente avvincenti che Wilson ha portato sulla scena americana. È il tipo di performance che ti fa sentire la mancanza di Boseman. Che – tra civetteria e fuoco, entusiasmo e follia – ti fa desiderare di poter vedere cos’altro avrebbe potuto fare.
Questo in parte perché l’interpretazione di Boseman suggerisce l’intuizione e l’acume drammatico di un attore che ha capito davvero a fondo il materiale. Come la pièce di Wilson prima, il film di Wolfe è ambientato nel 1927 ed è parecchio concentrato (tra le altre cose) sul paradosso del valore degli afroamericani – allora e oggi. Drammatizza il divario tra quanto abbiano contribuito alla costruzione degli Stati Uniti – in questo caso, il ruolo essenziale che l’espressione nera, come il blues, ha svolto nel ridefinire la musica e la cultura americana – e la totale mancanza di riconoscimento e rispetto imposta loro da quella stessa America. È il paradosso che ha in mente la pioniera del blues Ma Rainey (Viola Davis) quando dice: «A loro non importa nulla di me. Tutto quello che vogliono è la mia voce».
Ecco perché è anche difficile guardare Ma Rainey senza pensare a quella clip virale di Davis che dice: «Pagami ciò che valgo». Stava parlando della sua carriera, dei motivi per cui, nonostante un curriculum paragonabile a quello di attrici della sua generazione più pagate, altrettanto qualificate e formate, lei non ha avuto le stesse opportunità o gli stessi compensi. È un monologo tagliente, di vita reale. Avrebbe anche potuto essere un provino per questo film, che – pure con tutto il meraviglioso lavoro del reparto trucco, che l’ha dotata degli iconici denti d’oro di Ma Rainey e di un irresistibile contorno nero quasi gotico intorno agli occhi – funziona in parte perché puoi sempre riconoscere Viola Davis.
Ralph Ellison una volta ha scritto della leggendaria Mahalia Jackson: «Alcune cantanti possiedono, oltre ogni limite della nostra ammirazione per la loro arte, un potere misterioso di evocare il nostro amore». Ma Rainey, d’altra parte – con i suoi gemiti spavaldi, i suoi testi sfacciatamente sessuali, quell’impasto di voce muscolare ed erotico – evoca emozioni decisamente più ostili, e proibite. La libertà del piacere, per non parlare del suo pericolo, traboccava da quella voce. È un ruolo che praticamente implora un’attrice di darci dentro.
E Davis lo fa, ma non perché questo film parli nello specifico di come canta Ma Rainey, anche se, ovviamente, è giusto dare a un’attrice così generosa e audace la possibilità di spaccare tutto con un lip sync che ha il suo peso nel decennio di Drag Race. È così che inizia il lungometraggio: nei boschi della Georgia, con i neri che strisciano attraverso una pericolosa oscurità, che pare uscita da un film su schiavi in fuga. Solo che queste persone sono già libere – anche se con riserva – e stanno andando a vedere cantare Ma Rainey. Questo fa parte della posta in gioco in quel piacere che senti nella voce di Ma, nella fugacità nel suo ruggito. È un po’ stridente quindi tagliare, a metà performance, da quel locale nel bosco a una music hall a nord, dove Ma – ora big-timer i cui dischi stanno vendendo – ha un palcoscenico più grande su cui lavorare, una band più professionale, un suono più maestoso.
Come dice la stessa Ma nel film, il blues non è solo uno stile o un modo di usare la voce. È «il modo in cui parla la vita. Non canti per sentirti meglio. Canti perché è così che intendi la vita». Il che è molto importante per il film. Ma Rainey segue Barriere, l’adattamento di August Wilson diretto da Denzel Washington del 2016, che è anche valso a Davis un Oscar. Le pièce teatrali su cui si basano le pellicole uscirono nell’ordine opposto, negli anni ’80, e comprendono la seconda e la terza opera delle nove del Pittsburgh Cycle di Wilson. L’interesse principale della carriera di Wilson era nello scavare non qualcosa di semplice come “la realtà della vita nera” in tutta l’America del XX secolo, ma anche qualcosa di distintamente mitico e poetico: una realtà che sembrava sempre consapevole di sé stessa come il teatro, che utilizzava simboli spirituali (come l’arcangelo Gabriele, una presenza ripetuta), tragedia, archetipi, disabilità, forse anche qualcosa di simile alla magia, per vestire queste vite di una grandezza singolare. Questo è l’incantesimo che hanno su di noi nelle loro migliori interpretazioni teatrali.
È anche ciò che rende la transizione al cinema un po’ difficile da portare a termine con lo stesso risultato, il che non significa affatto che gli adattamenti cinematografici di Barriere e Ma Rainey manchino di potenza. È solo una forza meno clamorosa, più umile; i film non scuotono allo stesso modo. Ma ognuno di loro crea un terreno pazzesco per i propri attori. Vorrei vedere la Viola Davis di Barriere contorcersi nel dolore in primo piano, grazie; oppure, in Ma Rainey, gli occhi di Chadwick Boseman impazzire quando gli esiti drammatici presagivano per tutto il film i fallimenti promessi del suo personaggio dal momento in cui acquista un nuovo paio di scarpe e si presenta con un certa attitude, e finalmente arriva al culmine della storia.
E vorrei vedere gli altri attori – soprattutto Glynn Turman, Colman Domingo e Michael Potts, così come il resto della band di Ma – passare una buona parte della storia poeticizzando il loro percorso attraverso quello che sembra quasi un hangout movie. Questo è il problema di Ma Rainey: è la storia di una sessione di registrazione, e di tutti gli attriti interpersonali che emergono quando mettiamo queste persone in una stanza. Ci sono battaglie combattute qui, navigate attraverso linee generazionali, ideologiche, artistiche e di altro tipo: e queste conversazioni e tensioni sono ciò che si rivela piacevole e trascinante.
Non è mai bello che le radici di un film nel teatro costituiscano un limite al suo potenziale cinematografico. Non dovrebbe esserci davvero un ostacolo. Ma quando c’è, spesso è perché il linguaggio dei materiali originali è così ricco e il film tanto impegnato a essere all’altezza, da sembrare tutto un po’ troppo pilotato. Wolfe aggiunge un po’ di digressioni, con fotografie e tableaux che danno un contesto visivo più ampio alla storia. Ma la forza principale di questo film è nelle parole di Wilson, nella facilità con cui esprime idee, simboli e atteggiamenti, e in cosa fanno gli attori con tutto quel materiale. Il film, in quanto tale, ha i suoi limiti. Ma l’opera di Wilson invece non ne ha mai avuti.