In Eighth Grade – Terza media, l’esordiente Bo Burnham – 27 anni, finora una “carriera” come comico e musicista su YouTube – ha raccolto tutti i più piccoli dettagli della vita di una tredicenne nativa digitale, filtrandoli attraverso le sue visioni inventive e creando quel tipo di film che ti fa ridere in modo isterico e ti fa ricacciare le lacrime, spesso nello stesso momento. Non è un documentario, anche se a volte dà l’impressione di esserlo.
Kayla, la ragazzina interpretata dalla sbalorditiva Elsie Fisher, sembra crescere – o meglio: combattere contro la sua stessa crescita – proprio davanti ai nostri occhi. (La giovanissima attrice aveva prestato la voce alla piccola Agnes nei primi due capitoli di Cattivissimo me, ma è questa la performance che la mette in luce davvero.) Vuole così disperatamente essere cool da non aprire bocca quasi mai quando è a scuola, per non spezzare l’illusione; ma invece di farle guadagnare amici e popolarità, ciò la porta semplicemente ad essere votata come “la più silenziosa” sull’annuario scolastico. Nonostante ciò, Kayla posta su YouTube video che nessuno guarda in cui spiega come essere sicuri di sé e come porsi nei confronti del mondo, chiudendo ognuno di questi video con lo slogan «Gucci!». Praticamente, è un caso di goffaggine adolescenziale da manuale.
Burnham ha orecchio per la lingua dei teenager: se Kayla reagisce a malapena all’esercitazione su come comportarsi di fronte a un’eventuale sparatoria a scuola, è invece attentissima rispetto a qualunque sgarbo inflittole dalle sue compagne – soprattutto dalle “star dei corridoi”, troppo assorbite da se stesse persino per trovare il tempo di diventare delle vere mean girl. Quando riesce a procurarsi un riluttante invito per un party in piscina organizzato dalla fighissima Kennedy (Catherine Oliviere), puoi sentire tutto l’imbarazzo che prova nel dover indossare un costume da bagno; lo stesso accade quando la vedi accanto al fisicatissimo Aiden (Luke Prael), che con nonchalance le chiede se lei fa i pompini. La ragazzina, che non ha ancora dato il primo bacio, fa di sì con la testa: e poi corre su YouTube a cercare il significato di quella parola. Burnham non elogia o demonizza Internet: è, semplicemente, un dato di fatto nella vita di ciascuno di noi, pronto a misurare il proprio valore attraverso i like, le condivisioni, i retweet e i commenti su Snapchat. Ed è la reazione di Kayla al mondo, quando il suo smartphone è temporaneamente (e paurosamente) non raggiungibile, che fa prendere il volo sia al personaggio sia al film.
A casa, dove alza a stento gli occhi quando suo padre (il tenerissimo, magnifico Josh Hamilton) prova a intavolare una conversazione con lei, Kayla è schiava dei suoi device tecnologici. Ma quando fa visita al liceo che presto dovrà frequentare, la nostra fa subito amicizia con Olivia (Emily Robinson), una compassionevole studentessa dell’ultimo anno che la aiuta un po’ alla volta ad aprirsi. I progressi sono bruscamente interrotti quando Kayla si ritrova da sola sull’auto di uno degli amici di Olivia, Riley (Daniel Zolghadri), un ragazzo più grande che la mette in imbarazzo quando le dice di togliersi la maglietta. La scena, che si interrompe un attimo prima di diventare quella che vedresti in un film di Harmony Korine o Todd Solondz, è tuttavia piuttosto disturbante. Riesci a vivere ogni istante di quel momento grazie a Fisher, che, quattordicenne all’epoca delle riprese, va dritta al cuore del tormento adolescenziale. E nella scena di climax crescente che condivide con il padre, la sua inadeguatezza diventa la chiave per trovare una connessione umana profonda con questo personaggio.
Sono sequenze come la chiacchierata tra il padre e la figlia – e lo splendido discorso che Hamilton recita nel corso di essa – a fare di Eighth Grade uno dei migliori film degli ultimi anni. Ma, soprattutto, è l’empatia che Burnham mette nei suoi personaggi a trasformare questa storia di formazione in qualcosa di unico e prezioso. Il comico-diventato-regista ha la saggia intuizione di capire che la terza media non è una fase: è uno stato mentale da cui nessuno di noi si è mai del tutto emancipato. È per questo che il film suona strettamente legato a quel preciso momento, e insieme senza tempo. Gucci!