Quando è uscita nel 2016, l’autobiografia di J.D. Vance è diventata un bestseller a sorpresa, un oggetto di dibattito e una testimonianza accorata e improvvisata sullo stato della nazione: era il libro da leggere se volevi capire perché Donald Trump era stato così abile nello sfruttare la rabbia e la frustrazione del sottoproletariato bianco nella sua vittoria presidenziale. Questa storia sui sogni di riscatto impossibili del Profondo Sud riusciva ad appassionare i lettori grazie al ritratto di quest’uomo nato in Kentucky, della migrazione della sua famiglia verso la Rust Belt in Ohio e del suo iter tormentatissimo tra i corridoi di uno dei massimi atenei della Ivy League. “Dagli Appalachi a Yale” potrebbe essere il titolo di quest’odissea che affronta anche la violenza domestica, la tossicodipendenza, il pregiudizio delle élite nei confronti di quella classe sociale inferiore. È un racconto di sopravvivenza in cui la classica struttura della società americana basata sulla divisione tra ricchi e poveri viene sostituita dal ruolo cruciale e implacabile di Madre Natura, e dalla convinzione che solo una mentalità fai-da-te può trascendere tutti i problemi del tardo capitalismo. La forma espressiva del libro era a suo modo trascinante. Le frasi di Vance, a volte stupidi motti scambiati per pensieri profondi, si concentravano soprattutto sul fatto che i più poveri dovessero darsi una svegliata. E andavano lette in assoluta buona fede.
Bestseller significa gruppi di lettura e creazione di un “brand”, il che a sua volta significa un film. Un film, nello specifico, che viene fatto uscire in un periodo in cui l’industria – e certe “Academy” – sperano che quella storia possa tradursi in qualche statuetta dorata. Ecco dunque arrivare su Netflix Elegia americana di Ron Howard, rappresentazione live action degli aspetti più cartooneschi del libro di Vance che vuole in tutti i modi ottenere il Sigillo di Approvazione delle platee. Gli affondi conservatori e anti-welfare dell’autore sembrano essere stati chirurgicamente rimossi; rimane solo la rabbia, affogata però nello sciroppo prodotto con la melassa di stagione. Nessuno potrebbe accusare questo adattamento di turbare i liberali o, al contrario, di aizzare la classe sociale che mette in scena. È una pura e semplice recita interpretata da cosplayer travestiti da poveri, una pantomima che scambia le miserie di quella fetta di società ribattezzata “white trash” per un prestigioso dramma d’autore, un tentativo di servire carne in scatola su un piatto d’argento.
Jackson, Kentucky, 1997. Il giovane Vance (Owen Asztalos) trascorre la sua estate idilliaca correndo in bicicletta tra i boschi, facendo bagni nei laghi e parlando con le tartarughe. È venuto qui dall’Ohio: la madre Beverly (Amy Adams) ha portato lui e sua sorella Lindsay (Haley Bennett) a trovare i parenti. Quando alcuni ragazzi del posto si mettono a prenderlo in giro e ad alzargli contro le mani, i parenti di Vance rispondono ai bulli per le rime: c’è un codice che impone di guardare sempre le spalle alla “tua gente”. Si potrebbe dire che Beverly provi un certo affetto per i luoghi in cui è cresciuta, e che sia molto legata a suo padre (interpretato dal grande caratterista anni ’70 Bo Hopkins: ma cercate durante il film di non sbattere mai le ciglia, o potreste perdervelo), che J.D. chiama “Papaw”. Ma capisci anche che la donna non vede l’ora di tornare in Kentucky, e la ragione è da rintracciare soprattutto nel rapporto che ha con sua madre.
Anzi, Mamaw, l’inarrestabile forza della natura che guida il clan, dispensa il suo amore al profumo di nicotina e, con la pistola nella borsetta, è qui per prendersi il film. Se non fosse vera, bisognerebbe inventarla: e allora Glenn Close la trasforma in una sorta di Godzilla sputasentenze (molto banali) a spasso per il cosiddetto Buckeye State. Con l’acconciatura “elettrica” di chi sembra aver appena preso una scossa, le t-shirt con la bandiera americana e il classico cipiglio, Mamaw è al tempo stesso terrore puro e presenza materna, ovvero ciò di cui J.D. ha bisogno quando la tossica Bev diventa violenta o scompare all’improvviso. Il personaggio è l’opposto a cui la veterana di Hollywood ci ha abituati, e dunque è interpretato con un misto di «Non passerò di certo inosservata!» e «Eccomi, DeMille, sono pronta per il mio primo piano!» (la battuta più famosa di Norma Desmond/Gloria Swanson in Viale del tramonto di Billy Wilder, ndt). Ma c’è un’altra frase che potrebbe definire al meglio la sua performance: «Questo è quello che succede se hai deciso di non dare a Glenn Close un Oscar per The Wife».
Glenn è comunque la cosa migliore in questo gran pasticcio, e puoi facilmente sentire che l’energia del film cresce ogni volta che l’attrice entra in scena col suo passo strascicato. Come accade di fronte a molti attori che ci accompagnano da tutta la vita, a volte tendiamo a dare per scontato l’immenso talento della star di Attrazione fatale (o del Grande freddo, o delle Relazioni pericolose, o di Albert Nobbs: scegliete il vostro preferito). Questo è un assolo di arte pura che sembra mangiarsi tutto il contesto artisticamente terribile che ha attorno. Close è la sola in grado di recitare anche le battute più scontate – «La famiglia è l’unica cosa che conta» – e farla franca. Da qualche parte, ci dev’essere una versione di questo film in cui Mamaw non solo ha incenerito suo marito per poi fumarsi tranquilla diecimila sigarette, ma dove combatte anche il crimine, fa causa alla Corte Suprema e fa ritorno sulla Terra col suo shuttle urlando: «Baciatemi il culo!». Preferiremmo di gran lunga questo film invece del misero folklore che ci tocca.
La caotica infanzia di Vance è solo una piccola parte di Elegia americana. L’altra metà si concentra su J.D. ormai adulto (Gabriel Basso) in versione “pesce fuor d’acqua” a Yale, diviso tra la relazione con la futura moglie Usha (Freida Pinto) e la preoccupazione per la madre reduce dall’ennesima overdose. Considerato che Close è perlopiù assente da queste scene, la seconda metà del film è molto più scialba della precedente. Ma resta comunque inspiegabile l’impacciatissima gestione di certe sequenze, dalla cena piena di cliché tra Vance e un importante avvocato che vuole conoscerlo (puoi prevedere praticamente ogni dettaglio che ti sfila davanti) all’ira di Vance di fronte al fidanzato, anche lui tossico, della madre.
E se Adams è sempre un’attrice su cui poter contare, si trova comunque bloccata in un film che la tratta da “caso umano” mai approfondito davvero. Beverly sarebbe un personaggio molto sfaccettato: ragazza madre, studentessa universitaria dalle grandi doti, quindi donna frustrata dalle scelte a cui la vita l’ha costretta, testimone e vittima di abusi, tossicodipendente, sopravvissuta. Insomma, un essere umano dietro i numeri da statistiche sociologiche. Ci sarebbe moltissimo materiale per un’attrice, dunque è triste vedere quanto Adams sia invece costretta dal copione a fare ciò che la sua Bev ti aspetti che faccia in ogni preciso momento della sua parabola. Nascosta sotto una terribile parrucca, l’attrice cerca di suggerire il tormento interiore del suo personaggio, ma il film pretende che lei sia un mero simbolo e/o una fonte di rabbia o di adorazione per Vance. Anche le scene in cui è da sola, come la corsa sui rollerblade nelle corsie dell’ospedale dove lavora, sembrano del tutto stonate. Avete mai sentito parlare delle performance fatte in sala di montaggio? Ecco, questo è l’esempio perfetto: ci si chiede quanto materiale sia stato tagliato dai montatori per trasformare quella che avrebbe potuto essere una quercia in uno stuzzicadenti.
Ci sono delle qualità nello spaccato che ci ha offerto Vance di suo pugno, nella sua esperienza nelle piccole città di provincia, nella sua esistenza vissuta alla giornata, nel passaggio dalla working class alle élite. Ma Elegia americana lascia tutti questi dettagli sullo sfondo. Enfatizza il tormento e l’estasi della storia di Vance invece della consapevolezza e del rifiuto della sua condizione socioeconomica, tanto che il libro alla base finisce per apparire un melodrammone come mille altri. Alcuni critici hanno accusato il film di essere lo sguardo di una persona ricca e privilegiata sui problemi di quelle più povere. In questo modo, gli viene dato però fin troppo credito: persino una persona ricca e privilegiata si accorgerebbe che, dietro la reiterazione degli stessi modelli di generazione in generazione, ci sono sempre altri fattori, come l’etnia e la politica. La parabola di successo di Elegia americana non è vuota sociologia. È solo un vuotissimo spettacolo.