Fantastic Negrito, la recensione di 'Please Don't Be Dead' | Rolling Stone Italia
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Fantastic Negrito ha vissuto dieci vite, tutte dedicate al blues

Si può fare un disco contemporaneo dove convivono le anime di James Brown e B.B. King? A quanto pare sì

Probabilmente non reggerei un minuto della vita di Xavier Dphrepaulezz senza mettermi a piangere. Invece Xavier Dphrepaulezz è uno che ha vissuto dieci vite di Xavier Dphrepaulezz, ed è arrivato a cinquant’anni in splendida forma. In una di queste dieci vite se ne va in giro col nome di Fantastic Negrito e con un Grammy per il miglior album di blues contemporaneo in tasca (The last days of Oakland uscito l’anno scorso).

Ma prima di tutto ciò, diciamo che sono successe giusto un paio di cose: nel 1999 esce vivo per miracolo da un incidente stradale che gli costa tre settimane di coma e un lungo periodo di paralisi, a quei tempi era solo uno che aveva sperperato (anche un po’ per colpa dell’Interscope) un contratto milionario ottenuto per vie traverse grazie al manager di Prince, pubblicando un disco uscito nell’epoca sbagliata e che non ascoltò praticamente nessuno nel 1996, intitolato The X Factor, a proposito di tempismo sbagliato.

Il fiasco non fa un graffio a Xavier, che si è mette prima a organizzare feste clandestine in un loft a Los Angeles per tutto il jet set di Hollywood (per intenderci: Mike Tyson ospite fisso) e poi siccome era stato arrestato, decide di coltivare e vendere marijuana a uso terapeutico, che poi equivale a una specie di servizio sociale per uno cresciuto in mezzo alla strada e che a 12 anni faceva parte di una gang di Oakland e spacciava crack.

E pensate che invece siamo qui per parlare del suo nuovo album, Please don’t be dead appena uscito per Cooking Vinyl/Blackball Universe/Edel e che Xavier si è auto-prodotto nel suo studio a Oakland e che per farla breve è uno dei dischi migliori usciti quest’anno.

Per non farla breve invece, bisogna dire che su undici tracce non ce n’è una che abbassi l’asticella, neanche per un attimo, neanche per un bridge, ed è assurdo che in termini di idee, contenuti e di arrangiamenti la qualità sia così alta, a distanza di un solo anno dal lavoro precedente e dopo due anni di tour incessante. È un disco principalmente dedicato alla comunità afro-americana e in generale alla situazione sociale degli Stati Uniti, fortemente politicizzato e schietto (Fantastic Negrito durante l’ultima campagna elettorale statunitense ha sostenuto Bernie Sanders suonando prima dei suoi comizi), che non sacrifica minimamente aspetti melodici e sensuali, anche grazie alla voce a tratti androgina di Xavier; la quarta traccia A boy called Andrew ne è l’esempio più calzante.

Sullo sfondo di Fantastic Negrito e alla base di Please don’t be dead ci sono i Cream, i Led Zeppelin e Jimi Hendrix, ma la verità è che la principale dote della sua musica è quella di tagliare corto fino al blues più autentico e atavico, a stretto contatto con l’umanità, mantenendo una contemporaneità e un suono fresco che sembra impossibile pensare che siamo davvero nel 2018, che c’è Trump al governo ed esiste la trap.

The suit that won’t come off per esempio è un pezzo classico, quasi banale negli accordi e nei suoi passaggi, eppure c’è qualcosa che lo rende un capolavoro, soprattutto quando parte l’assolo assieme agli organi, facendo raggiungere al pezzo l’apogeo della propria eleganza.

Fantastic Negrito alterna vicende personali a aspetti sociali e politici nei testi, con la stessa facilità con cui alterna ballate acustiche struggenti degne di Bill Withers, (Dark window) a pezzi funk coi riffoni come The duffler, che ricorda i War.

È davvero incredibile come possano convivere in un solo album le anime di James Brown e B. B. King assieme a un sound – mi ripeterò ma è davvero fondamentale – così contemporaneo, dove con “contemporaneo” non intendo che si ricorre a stratagemmi del cazzo come piazzare un pezzo con l’autotune o rappato, intendo dire che si tratta di un disco blues e r’n’b fatto con grande passione, talento, dedizione e argomenti validi e su questo genere di cose il tempo può fare poco, anzi diventa un alleato, si percepisce che è un disco registrato con le tecnologie odierne e non ha mire nostalgiche dal punto di vista del mastering.

Forse la risposta è semplice e spiegherebbe un sacco di altre cose: Xavier ha venduto l’anima a Robert Johnson che l’ha rivenduta al diavolo a prezzo stracciato e ora che ci penso vorrei viverlo almeno un minuto della sua vita.

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