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‘Fino all’ultimo indizio’: come sprecare Denzel Washington, Jared Leto e Rami Malek in un thriller che va fuori strada

Un trio di premi Oscar (ma non tutti nella giusta parte) tenta di tenere in piedi un poliziesco ben confezionato. Ma no: non è ‘Seven’ (come forse vorrebbe essere)
2.5 / 5

Non stupisce più nessuno che le efferatissime e sanguinolente storie cosiddette true crime e la loro controparte immaginaria – quei film di genere con morti e donne scomparse, detective tormentati, lutti famigliari – non solo siano oggi considerati prodotti d’intrattenimento a tutti gli effetti, ma che per molti siano addirittura i titoli ideali con cui passare una tranquilla serata sul divano. Non ne faccio una questione morale, tutt’altro: scoprire la verità, come farebbe il protagonista di uno di questi film, rende sicuramente più tollerabili certi orrori. La violenza di queste vicende, la follia di queste indagini, il pericolo sempre dietro l’angolo: che sia sete di giustizia o brivido orrorifico, tutto ci trascina dentro queste storie, anche se non sempre vogliamo ammetterlo.

Tutto questo per dire che un thriller come Fino all’ultimo indizio di John Lee Hancock (disponibile in Italia dal 5 marzo in streaming on demand, ndr) sa che questa è la sua missione, e la porta a termine piuttosto bene. È anch’esso un prodotto di puro intrattenimento. Ed è un film piuttosto bizzarro, non solo per via del suo cast. C’è il classico caso da risolvere. E, soprattutto, c’è la danza perfettamente coreografata tra un detective, un ex detective (ora sceriffo) e un uomo sospettato di essere un serial killer, interpretati – non necessariamente in quest’ordine – da Denzel Washington, Rami Malek e Jared Leto.

Uno di questi tre uomini non è come gli altri, e non mi riferisco ovviamente al presunto assassino. Sto parlando di Denzel. Scopriamo subito che il suo Deke Deacon è lo sceriffo della situazione: vicesceriffo, pardon. E che il cambio di status e di distretto – da detective di Los Angeles a semplice poliziotto di Kent County – nasconde un passato oscuro. Pochi attori sono in grado di rendere interessante una roba da niente, e Washington è uno di questi. È il tipo di interprete che può prendere un copione ripetitivo, mettere in fila in modo chiaro e didascalico tutte le informazioni necessarie a farti comprendere l’arco psicologico del suo personaggio, e riuscire comunque a commuoverti. Quindi, sì: Dake sconta ancora il trauma di un caso finito male – l’omicidio di due donne che gli è costato non solo la sospensione dal servizio, ma anche il divorzio dalla moglie (e l’allontanamento dalle due figlie ormai adulte) – ma anche i postumi di un infarto. È davvero troppo. Ma grazie a Denzel, ci si riesce comunque a divertire (non “divertire” in quel senso: intendo quello che dicevo nella premessa).

È più curioso, se mai, cercare di capire la natura degli altri due. Se doveste tirare a caso, chi dei due secondo voi interpreta il presunto assassino: Leto o Malek? (Non andate a cercare su Google.) La cosa più assurda di Fino all’ultimo indizio è che due dei suoi tre protagonisti sono del tutto incapaci di interpretare l’Uomo Qualunque, il detective perbene assegnato al caso. Sono invece, al contrario, bravissimi a porre le giuste sfumature nel ritratto del serial killer: è un complimento, visto che spesso il casting di quei ruoli non funziona come dovrebbe. Leto è quasi sempre caratterizzato, anche per via dei suoi tratti esteriori, come il Bad Buy: e non solo per i capelli da santone anni ’70. I suoi personaggi hanno spesso un passato difficile che si insinua nel presente, e intenzioni quasi sempre poco chiare. Non è difficile immaginare una versione del film in cui le parti di Leto e Malek siano invertite.

Il che è ciò che ha mantenuto desta la mia attenzione per tutta la durata di un film ben diretto, ma non esattamente originale. In Fino all’ultimo indizio, il Jimmy Baxter di Malek è il detective arrivista e l’Albert Sparma di Leto è il sospettato con lo sguardo da pazzo. Ma è il passato di Deke – e il peso che Denzel mette nel ritratto di quest’uomo, che chiede di poter tornare tra i vecchi fantasmi di L.A. e di essere assegnato a un caso che non avrebbe nessun bisogno di seguire – a catturare lo spettatore. Tutte le altre scene, in cui non si può fare a meno di guardare Malek di traverso o di chiedersi se la colpevolezza di Leto non sia solo apparente – potrebbe essere un balordo qualunque! – ti fanno invece credere che il film vada semplicemente fuori strada.

Jared Leto è il presunto serial killer Albert Sparma. Foto: Warner Bros.

Il film è pieno di didascalie piazzate davanti per farti capire tutto quello che stai guardando. Senti battute come: «Sono le piccole cose quelle che contano, Jimmy. Sono le piccole cose a incastrarti»(il titolo originale è The Little Things, ndt). Ascolti queste frasi rivelatrici con la stessa perplessità con cui ti viene mostrata il collegamento tra un avanzo di pizza e le origini del serial killer. Sai già che, sulla scena del crimine, la regia indugerà sulle macchie di sangue; che le donne uccise saranno ovviamente nude; che c’è sempre un sentore di perversione sessuale dietro ogni cosa.

Il jolly da giocare, comunque, sono sempre gli attori e la strana energia che portano nella storia. Verso la fine di questo film “due uomini e un killer”, è inevitabile fare un confronto con Seven di David Fincher. È più che un semplice paragone: è come se questo film gli si prostrasse davanti. E c’è anche qualcosa delle atmosfere di Zodiac e di Mindhunter (RIP), sempre di Fincher. Il che rivela ancor di più i limiti di questo film.

Anche se il confronto con Seven è evidente, quello che conta – e costa doverlo ammettere – sono le piccole cose. Il trio di protagonisti ha una buona chimica, che però non è sempre compensata dal film stesso. Fino all’ultimo indizio finisce per essere il “film della settimana” da guardare distrattamente dal divano. Potrebbe anche bastare, se i suoi protagonisti non pensassero di essere dentro un thriller decisamente migliore di questo.

Da Rolling Stone USA

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