Agli albori dell’attuale Oregon, la vita era dura. I cinque elementi erano spietati, la natura poteva essere implacabile. Cacciatori e procacciatori di cibo potevano andare avanti per giorni senza trovare prede o provviste. Le anime più coraggiose arrivate in cerca di oro o pelli d’animale dovevano guardarsi dalle bestie più feroci, ma anche dagli uomini ancora più selvaggi venuti a far loro concorrenza, soprattutto se di mezzo ci si mettevano la fame e il whisky. Per farla breve, non era un Paese per uomini delicati.
È questo il mondo in cui Kelly Reichardt ci catapulta con First Cow (disponibile in Italia su MUBI), un manifesto epico-western in Re minore e una fuga nel passato che, a parte un brevissimo preambolo nel presente, vi farà sentire come se aveste percorso chilometri nel fango tra questa stramba gente di frontiera. Al centro, ci sono due uomini che sembrano voler correggere tutta l’ingiustizia che hanno attorno. Otis Figowitz (John Magaro) è un cuoco – perciò tutti lo chiamano Cookie (da “cook”, cucinare, ma anche inteso come “biscotto”, ndt) – che viaggia con una sacca piena di pellicce e viene assunto per soddisfare le gioie culinarie dei più ricchi. King Lu (Orion Lee) è invece il tizio che il primo trova nudo, nascosto tra i cespugli, a tarda notte, nell’accampamento in cui si è sistemato; lo straniero ha ucciso un «russo cattivo» per autodifesa, e sta scappando dai membri del clan della vittima. Il giorno seguente, Lu se ne va. Ma ormai un legame tra i due è stato saldato.
Quando i due si incontrano di nuovo in un saloon, Cookie ha piantato i suoi ultimi datori di lavoro e Lu ha trasformato una baracca nei boschi nella sua casa. I due uomini iniziano così a vivere insieme, condividendo i rispettivi sogni di gloria: potrebbero esportare in Cina genitali di castoro; oppure aprire un albergo, o una pasticceria. «Per un uomo senza soldi, non c’è nessun modo per iniziare qualcosa», dice Lu. «Ti serve un capitale». «O il sostegno di qualcuno», risponde Cookie. «O un crimine», aggiunge Lu. E qui arriva la mucca del titolo. Pare che il pezzo grosso della cittadina più vicina, un inglese affettato soprannominato Chief Factor (Toby Jones), abbia appena acquistato una famiglia di bovini per la sua tenuta. Il bue e il vitello sono morti durante il viaggio da San Francisco; la mucca, invece, ora pascola in un campo alle spalle della casa dell’uomo. Cookie dice che, se avessero del latte, lui potrebbe fare delle torte. Così, una notte, i due s’intrufolano nella proprietà di Chief Factor e mungono la mucca per ricavarne del latte («Mi dispiace per tuo marito», le sussurra Cookie.) Lu consiglia di vendere al mercato i dolcetti che l’altro cucina. Dicono agli uomini perduti che sono capitati da quelle parti che sono «un piccolo assaggio di casa». E, visto che ogni generazione ha il cronut (un dolce diventato il culto della pasticceria newyorkese Dominique Ansel, ndt) che si merita, i loro biscotti diventano un successo. Ci sono persone che letteralmente lottano per averne qualcuno. E, con quei dolci, i due finiscono per attirare l’attenzione dello stesso Chief Factor.
Non è la prima volta che Reichardt segue le vicissitudini di due uomini in un contesto selvaggio (vedi Old Joy), né che esamina l’“adolescenza western” di una nazione che riecheggia nel nostro presente (il rimando è al suo capolavoro – anche se altri titoli potrebbero ambire a questa medaglia – Meek’s Cutoff). La sua caratteristica enfatizzazione del silenzio e della quiete è qui al suo massimo: questo è un film dove il ritmo può interrompersi di colpo per lasciarti osservare una barca che scivola lentamente lungo un fiume o due uomini intenti a friggere pazientemente delle frittelle nell’olio bollente. Come nelle quattro precedenti collaborazioni di Reichardt con lo sceneggiatore Jonathan Raymond, che ha tratto questa storia dal suo romanzo The Half-Life, il personaggio ha sempre la precedenza sull’azione e sull’esposizione dei fatti. Su tutto e su tutti aleggia una grazia quasi esoterica (vedi Stephen Malkmus nei panni di Brilliant William).
Ma c’è qualcosa, nella delicatezza e nella semplicità che Reichardt mostra in questo caso, che rende First Cow un film unico. Per trasportarci all’indietro, in questi States vergini e primordiali, usa un’inquadratura in quattro terzi che sembra in qualche modo fare a pezzi la grandeur di Meek’s Cutoff, e che ti fa pensare di essere dentro una di quelle vecchie fotografie ingiallite. («Non volevo riprendere grandi panorami, ma persone con piccole vite», ha dichiarato la regista.) E mette in ogni scena un incredibile senso di intimità. Questi uomini dovrebbero essere il futuro della nazione: gli imprenditori individualisti che creano un nuovo modello di business, i futuri capitalisti, i bruti disposti a tutto, i neo-potenti che hanno già capito il ruolo che assumerà l’America di lì a poco. I piccoli uomini, in questo scenario, non hanno nessuna possibilità. «La Storia non è ancora qui, ma sta arrivando», osserva Lu. «E forse questa volta saremo pronti». Se la Storia ha dimostrato qualcosa, è che non siamo mai pronti, nemmeno quando la vediamo piombare all’orizzonte.
Non abbiamo ancora parlato di quello che John Magaro e Orion Lee portano in First Cow, né di quanto il rapporto tra loro sia la vera linfa vitale del film. Presenza notevole in qualsiasi cosa abbia fatto, da Not Fade Away (film del 2012 inedito da noi, ndt) a The Umbrella Academy, Magaro dona una dolcezza e uno spessore rari al suo Cookie, capaci di risuonare anche nei momenti apparentemente più banali: mentre rimette in piedi un piccolo tritone finito a zampe all’aria; quando posiziona con attenzione dei mirtilli su un clafoutis; mentre porge le condoglianze alla mucca. È semplicemente impossibile pensare a chiunque altro, in un ruolo così giocato sulla reticenza e la sottrazione. Lee è la sua controparte perfetta, quella del chiacchierone, dell’uomo che non sa tenere per sé le proprie idee e che fa di tutto per realizzare le proprie ambizioni. Ci offre il ritratto perfetto dell’americano che pensa di poter fare tutto. Lu sa che lui e il suo compagno d’avventure possono essere un duo vincente. E lo sa anche Reichardt, che lascia i suoi attori liberi di costruire le loro scene insieme. Sentiamo la connessione tra questi due stranieri che trovano conforto l’uno nell’altro in una terra così ostile. Il che rende il terzo atto più di una sinfonia dolceamara. Anche se, a una seconda visione, sai già quello che succederà, il finale ti distrugge ancora una volta.
È il loro legame il tema portante di First Cow. Il film si sarebbe potuto aprire con una qualunque massima di Marx o di Thomas Merton, di Whitman o di Wendell Berry. Reichardt e Raymond ne scelgono invece una di William Blake che suona come una confessione: «L’uccello un nido, il ragno una tela, l’uomo l’amicizia». È questa la chiave che lega la prima criptica scena alla commovente immagine finale. È qualcosa a cui si torna a pensare anche dopo parecchie settimane dalla visione. Ma la sensazione di aver assaporato l’opera monumentale di una grande autrice americana, quella è invece istantanea.