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Gesaffelstein vuole resettare il mondo della musica

Fra trapper fotocopia e un'industria che divora gli artisti, il francese e il suo "Hyperion" propongono di spegnere tutto e ripartire da capo. Magari con una nuovo look in vernice nera e l'aiuto di The Weeknd
4 / 5

Quando dopo anni di silenzio è uscito il primo singolo del nuovo Gesaffelstein, Reset, il messaggio è stato chiaro. Forse addirittura populista, ma comunque inattaccabile sotto molti aspetti. Il suo video è un marasma di figure che sgomitano per accaparrarsi un nanosecondo di inquadratura: trapper, rapper, twerkatrici, modelli. Tutti volti che non abbiamo mai visto ma che in fondo conosciamo già, essendo copie di altre copie che vediamo tutti i giorni nei video, negli articoli, su Spotify, condivisi da qualcuno su Facebook. Emblema di tutto ciò è un ragazzo, che parte entusiasta all’inizio del video, come un Eminem delle origini, e lentamente comincia la metamorfosi riempiendosi di tatuaggi, denti d’oro, rabbia, stanchezza, alienazione e diventando praticamente Tekashi 6ix9ine. Cioè il perfetto esempio di ciò che non si deve mai diventare.

In questa calca di gente agitata, una sola figura si erge immobile. Tra i volti tutti agghindati da Instagram, si aggira un ammasso decisamente in contrasto con l’ambiente, una statua di un misterioso metallo nero, i cui lineamenti lucidi sono distinguibili a malapena. Sembra quasi una figura aliena, con movenze robotiche, che guarda la massa di idioti che si agitano come fossero, beh, degli idioti. È la nuova maschera con cui ha deciso di ripresentarsi Mike Levy aka Gesaffelstein all’appuntamento tanto atteso del secondo album in studio, dal nome altisonante e quasi marvelliano: Hyperion.

In un mondo ipersaturo di artisti fotocopia e un’immagine, quella dell’artista, ormai prosciugata di significato e mercificata da un neoliberismo che ormai si è preso il meglio di questo mondo, Gesaffelstein ci suggerisce esplicitamente di resettare tutto. Tornare alla qualità, ai dischi fatti perché si ha qualcosa da dire, non perché si deve dire qualcosa. Non lo fa molto diplomaticamente, certo, in fondo un francese che suona techno in completo elegante è una combo che potrebbe tradire un certo snobismo. Però, dicevamo, il messaggio è chiaro e pure efficace.

E lui è stato il primo ad applicare un reset. Sei lunghi anni di silenzio discografico fra l’esordio e il suo sequel, interrotti solo da un singolo con Jean Michel Jarre (che deve avergli dato anche due dritte su come far durare decenni una carriera elettronica mantenendo un’immagine impeccabile e pure per dare vita alla jarriana title track, Hyperion) e soprattutto produzioni per altri, da The Weeknd a Kanye, da Asap Rocky ai Phoenix.

In più, il reset lo ha fatto rinunciando alla sua natura da tritasassi techno, ma mantenendo, anzi abbracciando, l’oscura malinconia di scale minori che lo ha sempre accompagnato (non a caso, l’EP prodotto per un altro come lui, The Weeknd, porta il nome di My Dear Melancholy). In cambio, il nuovo Gesaffelstein è lento, scarno ma espressivo come non lo è mai stato. Capace di duettare con le HAIM in So Bad sostenendole con poche, sinuose percussioni e un drone a bassa frequenza; oppure di prendersi molto più spazio nel funky apocalittico di Lost In The Fire feat. Pharrell. Quanto a Forever con gli Electric Youth, il mood rimane sospeso a metà fra i Daft Punk e gli Alphaville.

È da solo però che Gesaffelstein dà il meglio, anche se a volte non eccelle proprio in fantasia. È sempre una neo-electro francese rallentata e intrisa di anni Ottanta, ma tradotta nel linguaggio di questo secolo, l’hip hop. Vortex sembra la colonna sonora dei titoli di coda di uno sci-fi con protagonista 2 Chanz; Memora trasuda dramma da ogni arpeggiatore, come uno strano incontro fra Lorenzo Senni e Mike Will Made It. Infine Humanity Gone, traccia che chiude un album davvero molto bello, ma che dal titolo e dalla scelta di organi da Requiem presagisce un futuro poco roseo per tutti. O forse solo una malinconia pessimista in cui è sempre bello sguazzare.

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