Ce la possiamo immaginare, l’espressione di Giovanni Truppi, anche perché di più non si può fare. Forse dietro queste copertine sempre astratte, minimali, evanescenti, quasi timide, come Adamo ed Eva ritratti nell’omonimo disco del 2015, si nasconde il sorriso placido di chi serenamente si defila dalle polemiche, dalle sgomitate e da tutte le beghe dettate dal presenzialismo imperante.
Anche questa volta, per l’uscita del nuovo Poesia e Civiltà (edito su Virgin Records), ha avuto il minimo possibile di battage pubblicitario in ogni dove, quasi che i suoi dischi dovessero risuonare per arcani meccanismi ancestrali dagli amplificatori della gente, senza essere annunciati, anticipati, spiegati. Senza alcun messaggio additivo a confondere, ridurre, ingannare. Copertina sfocata, boschereccia, che ha perso anche quel abbozzo di ingegno indie/lo-fi che era stabile nei dischi precedenti. Per l’attuale, oltre al titolo e al nome, c’è solo la foto familiare, con tanto di maglietta sulla spalla, scattata da Giuseppe Truppi, che ricorda Lucio Battisti più bucolico, e nulla più. Il disprezzo per le fatue vanità del mondo (pop, almeno per com’è inteso) è totale. Forse beffardo ma di sicuro cosciente.
Questo nuovo album prosegue la linea inaugurata con C’è Un Me Dentro Me (2010) e proseguita con Il Mondo è Come te lo Metti in Testa (2013) e Giovanni Truppi già citato (2015), quest’ultimo che coincide forse con il suo personale spannung artistico e che porta inevitabilmente una nuova piccola svolta in un cammino da sempre poco incline all’adagiarsi su sé stesso. Prosegue anche l’effetto alieno delle sue canzoni, che nel contesto attuale, dove tutti somigliano a tutti e tutti a loro volta sembrano copiare Riccardo Sinigallia, danno l’impressione venire da chissà dove, da chissà quando, se non fosse per il ritmo che ruota su di uno stile minimalista che rimanda sia al folk che a scansioni tecnologiche date da synth e programmazioni.
Se invece qualche differenza si può notare, è di certo dal punto di vista dei contenuti. Dopo, o meglio in aggiunta ai versi dissacranti del passato, dove si parlava in seconda persona (I Miei Primi Sei Mesi da Rockstar, assai riuscita), come una nevrotica seduta analitica o un rimando alla poetica pasoliniana, se si vuol strafare, troviamo l’estrema quiete di Quando Ridi, messa per seconda traccia. Un inedito flirt con la cantabilità di un brano d’amore che si ritrova in alcuni pezzi, e che fa pensare a Sufjan Stevens (ma anche a Michel Gondry, in un richiamo cinefilo) d’altri tempi. Per il resto, sempre più vertiginoso appare il gioco del linguaggio naif che spiazza. Diceva Erlend Loe che il modo migliore per avvicinarsi a qualcosa di complesso è scegliere la strada della semplicità perché è solo quando le cose si fanno complicate che diventano semplici. In Poesia e Civiltà, c’è una linea in cui complessità (dell’argomento) e semplicità (del linguaggio) si incontrano e si compenetrano, questa linea traccia i capitoli più riusciti: L’Unica Oltre l’Amore, Mia e Le Elezioni Politiche del 2018.
Interessante in tutto resta la capacità di Giovanni nel foggiare una dizione musicale unica, a dispetto di chi da sempre sostiene che l’italiano sia una lingua ingrata o che permette poche variabili. Inventa metriche e fonetiche bislacche e imprevedibili musicalità del verso, con parole che forse chiunque altro non riuscirebbe a cantare, a colpi di “contropartite”, “decifrare”, “prosciugata” e quant’altro si avrebbe timore di inserire in una canzone.
Ma evidentemente non Giovanni, sempre più deciso a demolire il già sentito, il già vissuto, le banali certezze in cui si crogiola sovente la nostra amatissima canzone. In fondo si ha l’impressione che gli elementi in gioco non dovrebbero poter funzionare, e invece, chissà come, funzionano, e anche molto bene, producendo frammenti di sintesi musica e testo d’effetto. A volte esplicitamente prevale la lettura sperimentale come nella conclusiva Ancient Society, dove Truppi canta col massimo del candore: “Ma tuttavia arriverà il tempo in cui la ragione umana si rafforzerà / fino a dominare la ricchezza / in cui stabilirà saldamente sia il rapporto dello Stato verso la proprietà che lo Stato protegge / sia i limiti dei diritti dei proprietari” manco fosse Gaber (infatti non lo è, il testo è dell’antropologo Lewis Morgan) ma, che si tratti di giochi triviali o profondissimi, non ha importanza in un clima di assenza di gerarchie, dove tutto è frullato in un implacabile trito linguistico-emozionale.
Ma questo di Giovanni Truppi che quasi non vuole farsi ascoltare, che si nasconde tra gli alberi, che rovina ogni possibile progetto commerciale, che discretamente propone la sua piccola rivoluzione musicale, è di sicuro uno dei prodotti più curiosi della nostra canzone. Il suo orizzonte è ancora quello della ricerca, della crescita, il che gli fa molto onore, in un contesto che gli consentirebbe di non cercare nulla di nuovo.