L’amore eterno. C’è ambizione più potente per un regista che saper raccontare il sentimento più utopico e commovente sul grande schermo? Probabilmente no. E proprio quel desiderio di arrivare a quel valore assoluto e a quell’illusione struggente che spesso fa inciampare anche i migliori. Come Giuseppe Tornatore, già premio Oscar e autore di opere grandiose e non riuscite come Baarìa e forse non abbastanza apprezzato come autore di genere, talento speciale che lui stesso non ha saputo coltivare a dovere dopo il folgorante esordio con Il Camorrista. Soprattutto perché è stato più apprezzato da critica e pubblico, a torto, per il suo filone melodrammatico. Che, si sa, è uno dei filoni cinematografici più pericolosi e scivolosi, portandoti costantemente a una narrazione (e a interpretazioni dei protagonisti) sopra le righe. Ed è quello che succede nell’ultimo film di questo autore apprezzatissimo che il tono giusto, in quasi due ore, non lo indovina mai. Se la versione italiana è penalizzata da un doppiaggio imbarazzante, non si può comunque attribuire ad esso la mediocrità di un’opera che ha, del talento del suo creatore, solo qualche inquadratura da maestro e poco più.
Difficile parlare di questo lungometraggio senza lasciar intravedere un pezzo della trama, ma ci proveremo visto che tutti si sono premurati di evitare qualsivoglia spoiler, neanche fossimo in presenza di Star Wars. Jeremy Irons e la splendida ma qui dolentissima Olga Kurylenko sono due amanti: lui astrofisico di fama e lei laureanda nella materia ma anche stuntwoman, quasi a voler riassumere la carriera dell’attrice, già musa di Malick e Bond girl. Il destino li separerà, ma lui non se ne farà una ragione, trovando il modo di rimanerle vicino e ossessionarla. Lei, di questo morboso e garbatissimo stalking – via Web, posta e cellulare – sarà vittima e complice, costringendo noi che guardiamo a soffrire di fronte a un amore infinito e solipsistico che non trova mai, o quasi, uno sfogo fisico, già difficile nei sei anni della loro storia, essendo lui sposato e lei terza incomoda accondiscendente.
Il film è penalizzato da un soggetto fragilissimo, da una sceneggiatura sciatta nelle sue svolte narrative incredibili, nel senso più ampio del termine, come nei suoi dialoghi-monologhi che non ti portano mai a quell’empatia che vorrebbero suscitare. Irons, ingabbiato in uno schermo nello schermo, è un fantasma bidimensionale, così come la sua amante, mai capace di uscire fuori quella figura di femmina piangente e remissiva, patetica e patologica, persino nella propria solitudine.
Tutto sembra ostaggio di un cineasta che è diviso tra la voglia di lasciarsi andare a una facile retorica emotiva e il tentativo di disegnare una parabola esemplare tra tecnologia, (de)formazione sentimentale e improbabili comprimari (si pensi all’Ottavio-Caronte interpretato da Paolo Calabresi) che servono solo a confermare un teorema tanto ostinato quanto respingente. Purtroppo La corrispondenza è forse il peggior film di Giuseppe Tornatore, che non si riprende neanche in una colonna sonora pleonastica, in una fotografia plastificata e in una scenografia senza mai un guizzo, tralasciando il montaggio scolastico che appiattisce i diversi linguaggi visivi.
Anche l’affascinante idea già presente ne L’ultima offerta dell’assenza-presenza fisica e metafisica, spunto arguto e potente della penultima opera del regista, qui diventa solo pretesto, labile sentiero attraverso cui arrivare alla fine del viaggio con ripetitiva e noiosa incapacità di stupire e coinvolgere lo spettatore.
E si finisce, al massimo, per apprezzare una corrispondenza, sì, ma di amorosi non sense.