Mi sfugge proprio perché ci si rivolga ancora ai Glass Animals come a una band indie. Già dai tempi di Zaba, primo album del 2014, la scelta delle forme è stata inequivocabilmente art pop. Senza se e senza ma, i brani mostravano – e la solfa non cambia nel secondo How to Be a Human Being – strutture dettagliatissime, studiate alla perfezione per fare colpo al primo ascolto. Non è un caso, perché ad aver scoperto i quattro ragazzi è stato Paul Richard Epworth, produttore, fra i tanti, di Adele, Paul McCartney e Bruno Mars.
Ogni traccia in sé, quindi, è potenzialmente un singolo spaccaclassifiche rivolto, non è un mistero, a un pubblico giovane. Impossibile però non imbattersi nell’aridità di invenzioni che alla fine affligge l’intero LP; un po’ come quando ti sorprendi ad apprezzare tutte le hit che passano in radio e, nonostante sia la prima volta che le ascolti, sai benissimo che le hai già sentite tutte. Ma con altri nomi e altri artisti a cantarle. La sensuale Life Itself, che apre il disco, non è altro che una traccia dei N.E.R.D. riarrangiata in chiave 2016. Youth poggia le sue fondamenta su un giro di chitarre preso in prestito dagli XX e un coro, sul ritornello, che sa di Crystal Fighters ancor più di una traccia dei Crystal Fighters.
Dietro a Cane Shuga, poi, si nasconde il sorriso a trentadue denti di Justin Timberlake, che lascia poi il posto ai coretti spensierati di Pork Soda, omaggio più o meno celato ai Miike Snow. E potrei davvero continuare così per tutte le dieci, interessantissime opere nella tracklist. I Glass Animals scelgono molto bene i gruppi o gli artisti a cui rifarsi, cosa che rende i loro album un delizioso concentrato di idee coloratissime. Peccato solo che molta di questa bellezza non sia farina del sacco dei Glass Animals. Rielaborare ciò che hanno fatto altri, sperando nella poca memoria del prossimo: è davvero così che, per citare il titolo del disco, si diventa dei perfetti esseri umani?