Sale piene, la fila fuori (l’ultima proiezione è oggi alle 14 all’Admiral di Roma, nelle sale arriverà nel 2019), un film indipendentissimo e low budget sta facendo parlare il 13° Festival di Roma, grazie al coraggio della sezione Alice nella città – la migliore della rassegna, da diversi anni – che ha saputo capire il valore di Go Home – A casa loro e sceglierlo. Un’opera italiana, di Luna Gualano, che lo ha anche co-ideato, montato, e co-prodotto, un horror sociale, uno zombie movie sorprendente e feroce, un lavoro che ha saputo costruirsi dal basso. Letteralmente. Perché l’idea è geniale quanto semplice, romeriana: la metafora politica del morto vivente. Se allora erano le vittime del consumismo a essere contagiate dal germe di un’uniformazione mor(t)ale, ora è il seme dell’odio a trasformare, nella periferia di Roma, fascisti sovranisti, rifugiati politici, “guardie” e forse anche qualche compagno.
Siamo davanti a un centro d’accoglienza, una violenta manifestazione di militanti di estrema destra ne vuole impedirne l’apertura. La tensione sale, le facce si trasformano in preda alla rabbia, alla follia razzista, alla volontà di sopraffazione. C’è la tv, ci sono le forze dell’ordine, spettatori passivo-aggressivi di tutto questo tsunami di rancore sociale, ben incarnato da Paolone (un grande Giuliano Leone, speaker di Radio Rock, emittente che ha sostenuto il film con comparse di ascoltatori e dj e pubblicizzazione della raccolta fondi anche grazie alla presenza dell’autore e produttore musicale Emiliano Rubbi, voce della radio e sceneggiatore e cosoggettista del film). Urla, quest’uomo intriso di slogan, con il suo razzismo pieno di frasi fatte e urla a favore di camera, con un’espressività sopra le righe che incarna quella massa inferocita, troppo simile a ciò che vediamo nei talk, nelle strade, ai seggi elettorali, sui social.
E quella battaglia, sulla strada, a un certo punto contagia l’aria e l’apocalisse zombie, forse, rende persino più umani quelle bestie inferocite, l’inespressività dello sguardo e il trucco magistrale di Giulia Maria Giorgi (autrice anche degli ottimi ed essenziali effetti speciali) dona loro il senso profondo della verità, rende fisico il disagio che sentiamo guardando quelle prime scene.
Luna Gualano, che da qui ha fatto partire il laboratorio di cinema Il ponte sullo schermo, con Sara Ahmed e Francesca Scanu, rivolto a tutti i migranti presenti a Roma e hinterland, ha avuto un coraggio leonino nell’affrontare un’avventura apparentemente impossibile. Ha raccolto migliaia di euro solo grazie a un soggetto efficace e a un’ottima strategia in rete, ha affrontato un genere inusuale in Italia persino più della presenza di una donna dietro la macchina da presa. La scrittura, in mano a Rubbi, diventa un’arguta visione, ribaltata, di una guerra tra poveri, della meschinità dell’odio verso il diverso.
Gli zombie sono i migranti, cercano vendetta o forse solo la pace, ma in un mondo così la strada non può essere altra che la reazione. E nel centro d’accoglienza si barricano quei pochi non contagiati, tra cui un tipico “pischello fascio”, il tipico ragazzetto romano che per pigrizia e ignoranza odia per rivalsa più che per convinzione e che per sopravvivenza nasconde la sua identità, rifugiandosi nel centro d’accoglienza che voleva chiuso. Nasconde se stesso come fa con la catenina con la celtica, perché lì trova solo rifugiati politici, uomini e donne come lui. E’ bravo Antonio Bannò a interpretarne l’acerba identità politica, la paura, l’avvicinamento a chi diceva di odiare, la tragica coerenza con la sua debolezza infame. E’ brava la regista a usare al meglio due settimane di set, un low, anzi no budget, la sua visione per rinchiudere la storia nel centro sociale Strike e così non rinunciare a zombie, horror, violenza ma neanche ad abusarne, perché la storia, quella vera, è un’altra. E’ affilata e lineare la scrittura di Rubbi che cerca di inchiodare noi spettatori all’ineluttabilità di un racconto che ci dice che tutti siamo coinvolti e chi volta la testa dall’altra parte è complice.
Oppure uno zombie, se la testa in questione gira su se stessa. Una storia che è nata in una Roma capitale di un’odio represso, sempre più incattivita, in cui gli ultimi, i dimenticati – che bravi gli attori a partire da Sidy Diop – l’unico professionista tra non professionisti -, Shiek Dauda, Cyril Dorand Domche Nzeugang e Pape Momar Diop e tanti altri, rifugiati veri che parlano le loro lingue (ne abbiamo contati almeno sette di idiomi) – sono vittime sacrificali del nostro egoismo squallido. So’ mortacci nostra, che abbiamo sulla coscienza anche quando vivono come morti viventi sotto le nostre case, ai margini delle nostre strade. Che potenza uomini e donne che non vengono santificati, perché il colore della pelle non monda dai difetti che abbiamo, da ovunque proveniamo. Quando si parla di uguaglianza, si parla anche di questo: puoi essere rifugiato e stronzo. Anzi, devi.
In quella Roma che sta perdendo se stessa, però, c’è chi ci crede. Luna Gualano ed Emiliano Rubbi, ma anche Zerocalcare che disegna il manifesto (i morti viventi non sono una novità per lui, pensate al sottovalutato Dodici), o quella scena romana musicale che impreziosisce la colonna sonora, da Tommaso Zanello, in arte Piotta, a Daniele Coccia Paifelman, da Il muro del canto ai (sardi, in verità) Train to roots. A chi ha fatto una rinuncia di una colazione, una cena, una vacanza, spettatori e appassionati, per vedere un film che narra di cose che viviamo tutti i giorni ma che su grande schermo non vediamo mai.
Go Home – A casa loro è un gran film che vince contro le difficoltà produttive, che osa dove molti, in questo paese, artisticamente e politicamente, non hanno nemmeno il coraggio di sperare di andare.
E’ l’urlo di dolore e di rabbia di chi non si rassegna ma neanche si illude. E’ la dimostrazione che certi sogni si possono realizzare, se si ha la voglia, la determinazione, la follia di provarci. Che un bell’horror lo possiamo fare da queste parti, dicendo quello che nessuno vuole sentire. Con una grammatica cinematografica allo stesso tempo classica e moderna, diversa.
Lo possiamo e dobbiamo fare. A casa nostra.