In un momento storico in cui la rabbia è diventata una moneta di scambio importante, capitalizzata dai partiti politici nonché il nuovo mattone su cui si basa l’informazione, dedicare un disco all’idea di fiducia nel prossimo è abbastanza disarmante.
Non proprio un concept album, ma quasi: «Come si fa a restare per sempre al sicuro, a fidarsi e poi fidarsi di nuovo?», si chiedono i Ministri. E poi ci aggiungono Giuda e gli altri undici apostoli, gli attacchi di panico e le auto che si guidano da sole ma vagano tutta la notte senza una meta precisa. Ci aggiungono il lavoro che diventa una battaglia, le ferite di un amore finito – larghe come crateri – o il bisogno di essere trattati male solo per riuscire fare i conti con i sentimenti che ognuno di noi nasconde sul fondo.
Non proprio un disco allegro, tanto meno sereno, ma in questo mostrare il fianco si trova qualcosa di genuinamente più maturo rispetto al passato dove ci si abbandonava allo sconforto più buio, nichilista e dal vago retrogusto adolescenziale (eufemismo). Pare ci sia una piccola svolta nel mondo testuale dei Ministri: se prima parlavano quasi sempre di uomini soli, alla peggio coinvolti in relazioni fallimentari, circondati da una società composta sostanzialmente da idioti interessati solo alle ultime tendenze o al vip di turno, ora i protagonisti chiedono aiuto o almeno di essere capiti; con tutti i rischi che la cosa comporta.
Dal punto di vista sonoro, poi, il lavoro fatto è incredibile. Il produttore Taketo Gohara è riuscito a mettere insieme le distorsioni e il sudore vestendo il tutto, però, con soluzioni rotonde ed eleganti. Le canzoni emergono al meglio, praticamente risplendono, pur rimanendo al 100% pezzi rock. Non tutte sono memorabili, ma è il loro lavoro più ispirato dall’uscita di Tempi Bui. I Ministri hanno sempre avuto il problema di risultare vecchi e tremendamente prevedibili. In questo disco, invece, riescono a prenderti in contropiede. Fidatevi, se lo meritano.