Rolling Stone Italia

I Vampire Weekend sono ancora i più bravi di tutti 


Dopo essersi fatta desiderare per sei anni, la band torna con l’album ‘Father of the Bride’, l’antidoto indie-pop a tutta la robaccia che ci è stata propinata negli ultimi anni
4 / 5


Come ogni band che si rispetti e che rispetta il proprio lavoro e i propri fan, i Vampire Weekend si sono presi tutto il tempo necessario per tornare con un nuovo album, senza dare l’impressione di voler battere il ferro finché è caldo, né tentando di campare di rendita dopo il successo mondiale, facendo uscire un disco minore. Il motivo è molto semplice: non ne hanno bisogno.

Sono passati sei anni da quel capolavoro di Modern Vampires of the City che nel 2013 dimostrò quanto si potesse ancora fare indie rock puro e di spessore; maturo, senza che fosse necessariamente pesante o affettato; intelligente e senza chitarrine sceme e stucchevoli, nonostante le facce pulite e da eterni sbarbatelli. Nel frattempo Rostam Batmanglij ha lasciato il gruppo, nello stesso periodo è stato annunciato l’inizio dei lavori per il nuovo disco – che inizialmente doveva intitolarsi Mistubishi Macchiato – di cui Ezra Koenig ha iniziato a spargere indiscrezioni e notizie al riguardo, sia sui social network che dai palchi dei festival a cui hanno ricominciato a partecipare già da un paio di anni. 
Farsi desiderare dai propri fan non significa che non si sappia come essere generosi: ad anticipare Father of the bride, il quarto album della band newyorkese, ci hanno pensato ben tre doppi singoli usciti con cadenza praticamente mensile dall’inizio del 2019, un format insolito come insolita è la mole di diciotto brani che compongono tutta la tracklist.

Ma bando alle ciance, com’è ‘sto disco? La prima cosa che viene da dire con un sospiro di sollievo è: all’altezza delle aspettative, man mano che si ascolta non sembra neanche troppo azzardato dire che forse le aspettative le supera pure. Di certo si parte subito fortissimo con Harmony Hall che oltre a riprendere piacevolmente nel ritornello la coda di Finger Back – “I dont’ wanna live like this, but I don’t wanna die” ha il potenziale da mantra moderno e inno generazionale – è un perfetto esempio di indie pop ultra contemporaneo, pianoforti e chitarre semplicemente perfetti, così come la struttura e la melodia che scioglierebbero in un balletto persino il Night King. Perdonate se ci si dilunga ancora su un singolo brano, ma si dà il caso che abbia anche un grande valore simbolico per la band: “Harmony Hall” è anche il nome del dormitorio della Columbia University dove la band si è formata, un segnale di unione dopo la dipartita di un componente importante. E poi ha le voci e il supporto di Danielle Haim e David Longstreth (dei Dirty Projectors), tra gli altri.

Detto questo, c’è anche molto, molto altro: Father of the Bride è una specie di festival indie pop tutto in un disco. L’arpeggiata Bambina e la solare This Life sono due gioiosi pezzi che rispecchiano la volontà annunciata di fare un disco “primaverile”, una sensazione che riesce a scavalcare anche il fatto che la primavera al momento non sia pervenuta da queste parti e che continua nel minimal jazz con la voce un po’ alla Lambchop di Spring Snow, nei coretti della psichedelica Sunflower e poi ancora in Flower Moon che parte mezza prog e mezza 70’s e finisce con la voce calda e soul di Steve Lacy dei The Internet – che torna anche nella filastrocca ambient 2021, con un campionamento di Watering a Flower del compositore-pop star giapponese Haruomi Hosono. In Married in a Gold Lush e We Belong Together c’è di nuovo la voce della suprema sorella Haim, una protagonista assoluta di questo disco davvero ricco di input che fanno ballare sommessamente e commuovere sommessamente, ma che è nel suo insieme potentissimo, anche grazie all’intenso finale di Jerusalem – New York – Berlin che ha il potere non trascurabile di far cliccare di nuovo su play per ricominciare tutto da capo.

Ancora una volta è bene ripetere che si tratta di indie pop di altissima lega, che strizza l’occhio all’art pop ma anche al soul pop. È bene ripeterlo perché nel 2019 è un mezzo miracolo, vista tutta la robaccia insulsa che ci hanno propinato in tutti questi anni, come se bastasse vestirsi da idioti e fare tre accordini maggiori per cavarsela. E per un po’ è stato anche così. Ma ora che i vampiri sono tornati, bisognerà avere una bella faccia tosta per provarci.

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