Guardiamo a The Circle, la multinazionale che dà il titolo al nuovo film di James Ponsoldt e ancora prima al romanzo di Dave Eggers, come alla fusione delle più grandi aziende della Silicon Valley. È un po’ Facebook, perché la sua applicazione TrueYou, nel futuro nemmeno così improbabile e lontano in cui vive la giovane Mae (Emma Watson), è il social network più popolare al mondo, che conta miliardi di iscritti come il mostro di Zuckerberg; è pure un po’ Google, per via della sua onnipresenza/onniscienza in tutto ciò che riguarda Internet; infine Apple, non solo perché la sede centrale è un gigantesco cerchio proprio come il Loop di Cupertino, ma soprattutto perché portano il logo The Circle anche tutti i dispositivi con cui usare TrueYou, dal cellulare al tablet all’orologio. Insomma, The Circle è tutto ciò che rende facile e impossibile la nostra vita e Tom Hanks, ovvero Eamon Bailey, è il suo numero uno, il suo Zucker-Gates-Jobs-berg.
Ponsoldt commette però i primi errori da subito, consegnando al personaggio principale di Mae un background quasi al limite del teen movie. È il prototipo della ventenne millennial americana (ottima comunque l’interpretazione in lingua yankee da parte di un’attrice pur sempre inglese), scontenta del proprio lavoro e infarcita di sogni e ambizioni distorti da un’esposizione prolungata a film hollywoodiani. Non bastasse, il padre di Mae è malato di SLA, cosa che le provoca forti pressioni per trovare un lavoro che possa pagare l’assicurazione sanitaria e le cure necessarie. Il terreno per un lavaggio del cervello quindi è spianato e fin troppo scontato per Eamon Bailey (Hanks), che dopo aver assunto Mae sfrutterà un evento potenzialmente tragico a suo favore per creare un mostro. La vita di Mae viene infatti sottratta dall’annegamento grazie alle nuove videocamere progettate da Bailey e il suo team, quasi invisibili perché delle dimensioni di un occhio umano e applicabili praticamente ovunque. Qui si innesta il tema centrale del film. Mae su proposta di Bailey diventa la prima persona “trasparente” al mondo. Indossa una videocamera per quasi 24 ore al giorno (spenta solo quando va al bagno e dorme) che invia in tempo reale immagini ai suoi milioni di follower, diventando quindi una specie di star venerata da tutti, un personaggio che sta passando alla storia. La privacy dal magnate della tecnologia è spacciata come un male, un segreto per gente che ha cose da nascondere. La “trasparenza” e quindi la più totale controllabilità sono il fine ultimo a cui aspira Bailey. Eppure il mostro alla fine si rivela essere forse la peggiore idea del suo creatore, lasciando però parecchie cose in sospeso.
Nel mezzo ci sono storie d’amore abbozzate, tanti personaggi—quello di John Boyega in primis—che inizialmente sembrano avere un ruolo cruciale e poi vengono esclusi malamente dalla storia e un tema centrale, il topos orwelliano del totale controllo sull’individuo tramite l’annientamento della privacy, che viene toccato in maniera piuttosto sommaria, mostrandolo nella sua esagerazione, sì, ma senza offrire soluzioni valide e finali soddisfacenti per quanto distopici. Un thriller al gusto frappuccino di Starbucks, che nella sua prima parte sembra più un filmetto a metà fra Il Diavolo Veste Prada (agghiacciante il primo giro turistico che Mae fa nella struttura di The Circle, dove le vengono elencate tutte le strutture cool come la Spa, la palestra, il Doga, ovvero lo yoga coi cani, ecc) e The Social Network, con il solito sfoggio di lusso che dipinge la Silicon Valley come il paese dei Balocchi dove, azienda-tiranno a parte, ci sono tante feste bellissime dove ci si può permettere ospiti che noi mortali dall’altra parte dello schermo ce li sogniamo («Oh mio Dio, ma quello che sta suonando è Beck!»)
Da un lato c’è lo sforzo apprezzatissimo di “educare” il grande pubblico al rischio di questa vita da social e alle conseguenze tragiche dello spiattellare i fatti nostri ovunque e per chiunque, dall’altro c’è però un film che fornisce di proposito troppi pro in contrapposizione a un gigantesco contro. E che alla fine si lascia vedere ma non lascia davvero nulla, se non la voglia di scrivere “Boh” su Facebook.