La prima voce che arriva alle orecchie di chi mette su Some Rap Songs, l’ultimo album di Earl Sweatshirt, è quella di James Baldwin. “Imprecise words”, dice prima che la punta del giradischi faccia il suo primo scoppiettio. È un sample estratto da The Artist’s Struggle for Integrity, un discorso tenuto nel 1922 alla Community Church di New York e concepito attorno alla smitizzazione di alcune parole – “artista, integrità, guerriero e integrazione” – e all’idea che parole senza significato possano assumerne uno nuovo con il passare del tempo.
Al contrario di quanto si dice nel rap game online, dove si tende ad evangelizzare troppo in fretta ogni nuovo arrivato, Earl non è un messia apparso per riportare l’hip hop alla sua epoca classica, per fermare l’ascesa delle nuove superstar dal volto tatuato. Al contrario, il suo unico obiettivo è perfezionare la sua arte, la messa in pratica della sua visione creativa insulare. Le sue parole non sono “imprecise”. Sono intagliate ossessivamente, scelte e perfezionate anche quando la sua delivery dà volutamente l’impressione opposta. È sempre stato così, sin dai tempi delle assurde rime interne di EARL (2010), ma è solo con questo album che Earl è riuscito a dimostrare di padroneggiare alla perfezione l’arte del rigore e del controllo. Some Rap Songs non è solo un album che parla di morte, perdita e maturità, è un album capace di astenersi dalla ricerca di un significato universale. Earl non ci dà risposte facili perché non ne conosce nessuna.
Some Rap Songs è semplicemente un disco di belle canzoni su brutte emozioni. A gennaio, Keorapetse Kgositsile, poeta sudafricano e padre di Earl, è morto. «Io e mio padre avevamo un tipo di relazione piuttosto comune tra padri e figli, una relazione imperfetta», ha detto prima dell’uscita dell’album. «La sua scomparsa è stata letteralmente la fine della mia infanzia. Non ho potuto parlargli, e non vivere quel momento mi ha lasciato un sacco di roba con cui confrontarmi».
Il suo lutto si manifesta attraverso la ripetizione: accompagnato da beat concisi e circolari, Earl elenca ossessivamente gli stessi ricordi. È un uomo che sta affogando e che non riesce a credere che nessuno gli abbia indicato la via d’uscita. “Why ain’t nobody tell me I was sinkin’ / Ain’t nobody tell me I could leave,” dice nell’opener Shattered Dreams. Nel brano successivo, Red Water, proclama: “I was sinkin’ / I ain’t know that I could leave”. In The Mint dice di avere l’acqua al collo. Non sappiamo se Earl sia in fuga dalla fama, dalla depressione, dalle aspettative del suo pubblico o dalla morte. Forse sono tutte queste cose insieme. Ma è chiaro che la pressione sta avendo la meglio.
Some Rap Songs cerca sempre di superare le aspettative di chi lo ascolta. Claustrofobico, lo-fi e nostalgico, è prodotto da Sweatshirt, Booliemane, Adé Hakim, Denmark, Black Noi$e e Sage Elesser. La voce sembra sempre sul punto di essere ingoiata dall’arrangiamento, e mentre i sample degli Endeavors, dei Soul Superiors e di Billy Jones riempiono gli spazi vuoti, i loop sostituiscono i ritornelli che Earl si rifiuta di scrivere. Il suo talento è ancora intatto, ma è come se non avesse bisogno di metterlo in mostra con la forza bruta, meglio piuttosto sparire nel mix.
I grandi talenti spesso tendono all’egocentrismo. Vogliono che tutti sappiano della loro grandezza, quindi la ostentano – la moderazione e le sfumature sono spesso un ripensamento, un’aggiunta. Per i rapper con testi più complessi e stratificati, questa tendenza si manifesta con un’esagerata presenza di giochi di parole e barre intrecciatissime, come se la tecnica predominasse sul brano. Some Rap Songs è invece una rarità, l’album di un autore dal talento immenso che al posto dei fuochi d’artificio sceglie di sprofondare sul lettino dell’analista, determinato a cercare un’opera d’arte che sia onesta. È una delicata dichiarazione di decoro, scritta con un metodo che ci fa capire come mai prima d’ora la natura di questo artista.